Categories:


Dopo l’immane sforzo di Dhalgren, sembra che Delany abbia voluto divertirsi, scrivendo un romanzo che ne è di fatto un complementare: tutto quel che l’altro non è.

Divertirsi? Con Triton? Be’, stiamo parlando di Delany: quel che è divertimento per lui, per noi sono scacchi tridimensionali. Ma vediamo più in dettaglio. Perché considero Triton complementare a Dhalgren, innanzitutto? Intanto per la forma, l’ambientazione. Se là avevamo una normale città americana agitata da fenomeni misteriosi e simbolici, qui abbiamo l’intero sistema solare ormai colonizzato, con protagonisti originari di Marte che viaggiano tra Tritone (satellite di Nettuno, da cui il titolo) e la Terra; eventi roboanti come una guerra interplanetaria; una società utopica dove chiunque può cambiare sesso a piacere, e in genere lo fa, con la facilità con cui i “vecchi” di Scalzi ottengono un nuovo corpo per combattere. Dal minimalismo al massimalismo, insomma. Inoltre, Dhalgren era incentrato sull’interiorità del suo protagonista e la sua evoluzione interiore (e in parte quella dei suoi compagni di vita); qui abbiamo un protagonista ben poco interiore in una fitta rete di rapporti sociali, che ritiene di dominare come un maestro di cerimonie… e si ritrova coinvolto in una serie di amorazzi che crede di padroneggiare prendendo invece una facciata dopo l’altra, mentre il Ragazzo di Dhalgren era umilmente e fluidamente aperto a ogni contatto.

Con tutto ciò, Delany è Delany: usa i tópoi della fantascienza solo finchè gli fanno comodo. Della guerra interplanetaria non sapremo né perché né come sia stata combattuta: serve quasi solo a giustificare il momento culminante di un feuilleton amoroso. Bron Hellstrom, il protagonista, ex prostituto di alto rango nei quartieri a luci rosse di Marte, ora esperto di metalogica del governo di Tritone, mentre una sera attraversa il quartiere non regolamentato della capitale Tètide, viene coinvolto in una rappresentazione teatrale d’avanguardia. Un tipo razionale e materiale come lui si ritrova rapito dall’atmosfera bohémienne della compagnia teatrale: la chitarrista Charo, l’acrobata Windy, la transessuale appartenente a una setta… ma soprattutto dalla Spiga, la geniale drammaturga. Sebbene i due finiscano a letto la notte stessa, e grazie ai trascorsi di Bron la notte si riveli molto soddisfacente per lei, Bron si accorgerà presto che ci vuole ben altro per una vera relazione: soprattutto ci vorrebbe che lui la apprezzasse per quello che lei è (ed è davvero qualcosa di speciale): e invece è rimasto un prostituto dentro, capace solo di possedere o essere posseduto, attento al dare e all’avere e soprattutto all’apparire in una relazione.

Adesso la sto raccontando facile, ma questa storia d’amore interplanetaria non è che il filo rosso intorno a cui l’autore tesse una trama di altri temi: tutte le sfaccettature delle relazioni etero-, omo- e bi-; il suo amore per l’arte, il teatro, e i complessi giochi di ruolo o “war games” come usavano negli anni ’70, mondi in miniatura (come il terrario della scena iniziale del suo racconto “Il buco tra le stelle”); una società dal governo azzerato, utopia economica, dove è previsto un reddito di cittadinanza assegnato da un sistema informatico, che si ripaga da solo grazie all’assenza delle pletoriche amministrazioni umane di una volta; il tema della privacy e di come il governo possa controllarla; pipponi… ehm, spiegoni.. ehm, infodump su cosa sia la metalogica, come funzioni un cambio di sesso, ecc., che Piero Angela scànsati; il tutto espresso nello stile di Delany, complesso come Henry James e dall’inesauribile vocabolario.

Tutto sommato è forse il suo romanzo meno amato dai fans: non è ostico e affascinante come Dhalgren, non sprizza genio come Babel-17 o Nova, non è pura e raffinata avventura come I gioielli di Aptor. Eppure l’ho trovato assolutamente affascinante: un compendio del futuro e dell’utopia come le vede l’autore, narrate con la naturalezza di chi davvero ci ha vissuto; una provocazione intellettuale continua; una sfida artistica lanciata ai Reietti della LeGuin, fin dalla dedica “Un’ambigua eterotopia”: anche qui un viaggiatore dagli utopistici satelliti torna a visitare la vecchia e maligna Terra, e il confronto fra i due sistemi sarà impietoso. Peccato che qui il viaggiatore, più che a Shevek, somigli a Sabul; ma è un coerente anti-eroe, e impareremo dai suoi sbagli.


Antonio Ippolito
Samuel R. Delany
Leggi le altre recensioni di solarpunk.it
Condividi il post

Comments are closed