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Antonio Ippolito

Dhalgren è il romanzo più impegnativo di Delany, a sua volta uno degli autori più sperimentali e innovativi della fantascienza New Wave. Uscito nel 1975, nonostante la mole e una certa oscurità negli USA divenne un libro di culto, arrivato a vendere un milione di copie:

In Italia è un po’ meno noto, anche se fu pubblicato già nel 1982 da Libra, nella traduzione della mai abbastanza lodata Roberta Rambelli, e ripubblicato nel 2005 da Fanucci, nella traduzione di Maurizio Nati. Non è certo mancata, quindi, l’attenzione editoriale. Credo però che la New Wave abbia trovato in Italia un’accoglienza un po’ più fredda che nel mondo anglosassone; e sebbene Delany, insieme a Zelazny, ne sia stato uno dei rappresentanti più amati, questa particolare opera è forse risultata davvero “eccessiva” in molti sensi.

Fin dall’inizio seguiamo il vagabondaggio del protagonista, il Ragazzo, di fatto un ventisettenne che sembra un ragazzino; sessualmente fluido, scalzo e trasandato come molti protagonisti di Delany, è una evidente rappresentazione dell’autore nei suoi anni di apprendistato artistico ed esistenziale: per questo, e per lo sperimentalismo spinto dell’opera, ho voluto intitolare queste note come il romanzo autobiografico di Joyce. Dopo un breve incontro amoroso in un bosco, trova in una caverna una lunga catena di “prismi, lenti e specchi” che indossa come una specie di iniziazione; poi ha l’impressione di rivedere in un campo la ragazza di prima trasformarsi in un albero; spaventato da quel che vede, si affretta a raggiungere la città di Bellona, dove entra clandestinamente, dopo aver scambiato alcune parole con un gruppo di ragazze che invece se ne sta andando, e che lasciano a lui un’arma molto usata nella città: una “orchidea di ottone”, insieme di lame da portare al polso.

Bellona (si chiamerà così anche la città dove è ambientata la sua opera successiva, il più tradizionalmente fantascientifico Triton) è una città molto particolare: di dimensioni medio-grandi e sita più o meno nel Midwest, vive da tempo in uno stato di abbandono, in preda a incendi e tumulti, razziali e non. Il nostro Ragazzo, che ha perso buona parte della memoria compreso il proprio nome, viene accolto quasi subito da Tak Loufer, uomo dai molti nomi, con cui passa la notte. Tak è un ingegnere, una specie di guida razionale in una città che vive in modo sempre più irrazionale (sul suo comodino, insieme a vari romanzi pulp dedicati agli Hell’s Angels e poesia dell’800, romanzi di fantascienza: Zelazny, Disch e la Russ, di cui si cita direttamente The Female Man): presto il Ragazzo scoprirà che la città è in mano a bande di teppisti detti gli Scorpioni, che procurarsi cibo e droghe non è un problema, che la promiscuità sessuale è la regola; soprattutto, scopre che l’idolo della città è George Harrison, carismatico nero adorato da tutti, il cui fisico scultoreo compare in poster pornografici esposti ovunque. Delany sfoggia tutta l’iconografia dell’immaginario gay e bisex insieme a quella del degrado urbano: sembra di essere in un video dei Village People come “Five o’ clock in the morning”. Parallelamente, il lettore scopre che l’autore sta giocando con lui in tutti i modi: il narratore è totalmente inaffidabile, dimentica fatti appena accaduti e si contraddice, e a volte lo dichiara e a volte no; a fine capitolo spesso passa alla prima persona per esporre complessi pensieri estetico-filosofici, lasciando capire che il narratore potrebbe essere lo stesso Ragazzo molti anni dopo i fatti; ma ci sono anche capitoli dove il Ragazzo non viene nemmeno chiamato così, ma solo “lui”, a indicarne un ulteriore spaesamento.

Contemporaneamente la città sembra cambiare forma e aspetto ogni giorno: non c’è mai la certezza che un percorso seguito ieri, oggi conduca alla stessa destinazione. Addirittura, avvengono fenomeni fisici incomprensibili: come la comparsa di una seconda luna una notte, o il sorgere di un sole enorme un pomeriggio; per non parlare degli incendi che sembrano ardere eternamente negli stessi edifici, per poi magari scomparire senza lasciare traccia. Delany racconta il tutto nel suo stile lirico, sempre a un passo dal risultare pesante per eccesso di dettaglio o di feticismi (l’ossessione per le mani, mai abbastanza callose o con unghie abbastanza rotte, mangiate, sporche, e comunque descritte in ogni dettaglio), sempre pronto a stupire con una frase oracolare, una svolta nella trama, la magistrale descrizione di un personaggio partendo da un suo semplice atteggiamento.

You can check at any time you like / but you can never leave!

Se il Ragazzo effettua una specie di dantesco viaggio agli inferi per ritrovare il se stesso perduto, Tak è il Virgilio tutta razionalità che attende alla porta dell’Inferno per accogliere all’arrivo queste anime perse e accompagnarle nei vari gironi: il locale notturno di Teddy, la comune hippie nel “parco dei leoni”, i vari nidi di scorpione. Sollevati dalle incombenze quotidiane, i protagonisti vivono una vita “liberata” secondo le aspirazioni della contro-cultura degli anni ’60, che Delany sembra voler ritrarre una volta per tutte, celebrare e poi dimenticare (per questo mi piace intitolare questi paragrafi con versi di “Hotel California”, canzone uscita negli stessi anni e con significato analogo): abbiamo una comune hippy dal vago idealismo, bande di teppisti più o meno violenti, predicatori di colore… e anche una classica famiglia della media borghesia, i Richards, disperatamente aggrappati a difendere un’apparenza di rispettabilità tradizionale. Questo è forse il girone infernale peggiore: tra cene impeccabili in cui ogni gesto, ogni parola è volta a nascondere qualcosa (qui Delany raggiunge la perfezione stilistica del miglior Salinger), e il violento ritorno del rimosso: se il primogenito è fuggito di casa tempo prima, la secondogenita è follemente innamorata di George Harrison, al punto da cercarlo per strada la notte per offrirglisi, e di comprare i suoi poster; addirittura sembra creare un incidente fatale per eliminare il fratello minore che l’aveva scoperta. Il Ragazzo si incarica di recuperarne il cadavere dalla tromba dell’ascensore dove è precipitato, ed è uno degli episodi più disturbanti del libro, non solo per il carattere macabro ma perché Delany non teme di accennare persino alla necrofilia, pur con grande sobrietà e maestria stilistica. In ogni caso il nostro Ragazzo comincia a farsi rispettare persino dagli scorpioni.

Se Tak è un Virgilio, Beatrice naturalmente è la bella Lanya (non sembri eccessivo il paragone dantesco: Delany non ha tralasciato nulla quanto a simbologia e allegoria; l’antico addestramento a leggere la Commedia secondo i suoi “quattro sensi” contemporaneamente viene decisamente utile!): Lanya, dicevamo, è la Grazia che salva, il tramite diretto con il Dio luminoso di questo mondo buio: il misterioso Calkins, politico, governatore “de facto” di Bellona nonché proprietario del “Bellona Times”, il giornale che esce “solo di domenica” ma in date del tutto casuali (anche il tempo a Bellona è molto relativo). Il Ragazzo non riuscirà mai a vederlo faccia a faccia; lei invece è stata addirittura sua ospite per settimane nella grandiosa villa dove i giardini hanno un’area per ogni mese dell’anno. Spalleggiato da questi compagni, pur tra frequenti vuoti di memoria, il nostro protagonista si dà all’esplorazione di Bellona: scopre una chiesa dall’orologio senza lancette, partecipa insieme agli scorpioni all’assalto a un grande magazzino, difeso da un gruppo di uomini armati, sventa un attentato razzista nella chiesa del reverendo Amy, si guadagna via via un ruolo da leader.

Soprattutto, entra in gioco un co-protagonista: un quaderno trovato per terra, dalle pagine pari lasciate in bianco, dove il Ragazzo inizia freneticamente a scrivere poesia. Un quaderno che verrà conteso da poeti rivali, analizzato per dritto e per rovescio per accertare cosa è stato scritto dal Ragazzo e cosa dal suo predecessore; addirittura, per la gioia di chi apprezza la narrativa d’avanguardia e la disperazione dei tipografi, i capitoli finali del romanzo compiono la prodezza tipografica di riprodurre fedelmente il quaderno, con frasi scritte negli spazi lasciati dai brani principali in modo che il lettore cerchi di riordinarli nel tempo e nelle loro contraddizioni, con frasi stampate a specchio e pagine di voluto nonsense. Il quaderno di poesie balza all’attenzione di Ernest Newboy, poeta ammirato e momentaneamente in visita a Bellona, che avvia un intenso rapporto di maestro e allievo con il nostro Ragazzo, dando la stura a una serie di brillanti e taglienti discussioni su cosa sia poesia e cosa no, e in che misura la poesia abbia un valore e se sia quello che l’autore intendeva. Newboy, pur riservandosi un giudizio definitivo sulle poesie del Ragazzo, le farà pubblicare in volume da Calkins, dandogli ulteriore fama immediata.

Mirrors on the ceiling / the pink champagne on ice

Una mattina all’alba il Ragazzo raggiunge il ponte che scavalca il fiume, finalmente ricomparso, e si rende conto che la città sembra cambiare forma alle sue spalle come un gigantesco labirinto da laboratorio (con Tak aveva appena discusso l’ipotesi che si trattasse di un romanzo di fantascienza, di diverso genere); vede passare un’auto sul ponte che porta all’altro lato del fiume e verso il mondo esterno: è Newboy che, dopo aver lanciato il Ragazzo come celebrità nella poesia, lascia Bellona.

Spaesato, il Ragazzo vaga per le strade fino a trovare Denny, un giovane scorpione, che lo invita nel nido degli scorpioni; tra i due è attrazione a prima vista, e al loro appassionato incontro si aggiunge presto Lanya; dopo ventiquattr’ore e 50 pagine di descrizioni intime, si è forgiato un terzetto inseparabile. A questo punto il Ragazzo, sempre più ammirato da tutti, inizia la sua scalata a capo degli scorpioni e ritrova anche via via pezzi della propria identità.

È impossibile seguire tutte le sottotrame, di cui Delany tiene un fermo controllo anche dopo centinaia di pagine, o riassumere gli innumerevoli argomenti vissuti e discussi dai personaggi a dare un ritratto di quell’epoca: soprattutto questioni estetiche e psicologiche (Delany non ha mai praticato un impegno politico diretto, ma piuttosto un intenso impegno umano e personale), ma si parla anche di stupro e di femminismo. Il romanzo è un continuo interrogarsi sulla natura della realtà e sul valore della letteratura, che Delany riesce a innestare con naturalezza nella sordida vita del nido degli scorpioni, passando con naturalezza da gerghi e dialetti a simbolismi e speculazioni filosofiche; due esempi mi sembrano significativi.

Il razionale Tak compare sempre meno con l’avanzare della trama, ma un giorno invita il Ragazzo a visitare un magazzino della Maitland Enterprises (dove lavora anche il rigido John Richards): lì scoprono scorte inesauribili degli oggetti che nelle strade di Bellona passano per tesori: i proiettori che trasformano gli scorpioni in animali mitologici fatti di luce, le misteriose catene decorate con prismi, lenti, specchi… È un momento di critica su come anche la controcultura sia di fatto inserita in un contesto industriale e capitalista? Un momento di straniamento dai sogni giovanili, simile al finale di “American Graffiti” di John Lucas (uscito negli stessi anni)?

Ancora: alla festa dell’evanescente Calkins, l’astronauta Kamp, piuttosto a disagio nello svolgere le mansioni di padrone di casa in attesa che Calkins stesso ritorni, ha invitato il Ragazzo nell’osservatorio astronomico della villa, dove cerca inutilmente di fargli vedere qualcosa (metafora dell’insufficienza della scienza?); riesce comunque a esporgli una delle confessioni più profonde di tutto il romanzo: incalzato perché riveli qualcosa che non ha mai detto a nessuno, ammette che quanto ha sempre raccontato della sua celeberrima esperienza lunare altro non è che quel che era stato concordato in precedenza con le Pubbliche Relazioni della NASA; le sue “vere” esperienze e sensazioni sono affatto incomunicabili, perché mancanti di qualunque quadro di riferimento espressivo. L’unica cosa che può raccontare di genuino è un’illusione ottica che per un momento gli ha fatto credere alla presenza di un topo tra le gambe del modulo di atterraggio, nel vuoto.

La trama prosegue con il Ragazzo insoddisfatto del suo ruolo di capo degli scorpioni. Il suo primo tentativo di entrare nella villa di Calkins lo aveva portato a essere pestato da alcuni scorpioni (di cui non era ancora il capo); al grande ricevimento dove l’intero nido, grazie a Lanya, è finalmente invitato, Calkins alla fine non partecipa. Solo seguendo un altro dei suoi “fil rouge”, la ricerca di un fantomatico monastero (simbolo di una spiritualità più “colta” e meno “popolare” di quella incarnata da George Harrison o dal reverendo Amy), il Ragazzo troverà non solo il monastero ma lo stesso Calkins, ospite del Padre dei monaci: segue finalmente un lungo colloquio tra i due attraverso una grata, in cui non riuscirà a vederlo in faccia, sorprendentemente simile a quello tra il cavaliere e Dio/la Morte nel “Settimo sigillo” di Bergman. Questo colloquio ha un po’ il ruolo che, nel romanzo di Joyce, aveva l’epifania finale (l’apparizione della ragazza-uccello sulla spiaggia) e permette al protagonista di considerare chiusa una fase della vita per iniziarne un’altra: il Ragazzo può finalmente uscire da Bellona. E mentre fa ciò incontra una ragazza che vi sta entrando, come lui 700 pagine prima; una ragazza che, guarda caso, ha una scarpa molto più consumata dell’altra… A lei passa il testimone della “orchidea di ottone” che portava al polso.

“Il muro del detective” di Gary Sanchez, Bassin d’Arcachon (Francia)

Dal punto di vista narrativo, il finale dell’opera crea in realtà ancora più ambiguità di quanta ne risolva: raccolgo qui sotto alcune osservazioni che potrebbero rovinare la lettura a chi non avesse ancora letto il romanzo; in questo caso si può passare direttamente al paragrafo successivo.

SPOILER

Nel finale vengono messi in dubbio alcuni punti che sembravano acquisiti sull’identità del Ragazzo. La seduta psicanalitica con la dottoressa Brown rivela innanzitutto che la scena iniziale del romanzo, ovvero il rapporto fugace in un bosco con una ragazza che gli avrebbe poi indicato una grotta dove trovare le catene di “prismi, lenti e specchi” in cui avvolgersi prima di entrare in Bellona, sarebbe stato solo un sogno. Da dove viene allora il Ragazzo? La stessa dottoressa Brown ammette di averlo inizialmente scambiato per uno dei suoi pazienti presenti da tempo nell’ospedale psichiatrico, e di avergli offerto per questo un lavoro presso i Richards; la considera però una svista; ma le si può credere?

Altra cosa. Il misterioso quaderno sulle cui pagine rimaste bianche il Ragazzo scrive le sue poesie, tra gli altri scritti del precedente proprietario include una lista di nomi e cognomi; forse i compagni di classe di un corso universitario? Tra i nomi compare un certo William Dhalgren: è l’unico riferimento al titolo in tutto il romanzo. Questo, e il fatto che in una situazione di pericolo al Ragazzo venga spontaneo gridare proprio questo nome, mi fa pensare che sia proprio questa la sua identità perduta. Ma verso la fine il Ragazzo, intervistato da un giornalista del “Bellona Times”, improvvisamente lo chiama Dhalgren, e se stesso “Matthew qualcosa”… Ma ancora: gli si può credere?

FINE SPOILER

Come si sarà capito, il romanzo utilizza scenari fantascientifici ma non è SF in senso stretto, se non nel senso di “speculative fiction” in voga appunto negli anni della “New Wave”.

Il vostro recensore lo ha apprezzato molto, ma siccome richiede il gusto per lo sperimentalismo,  oltre ad avvisarvi sulle sue peculiarità vi segnala una buona stroncatura dello stesso.

Nella postfazione alla mia edizione, William Gibson scrive:

‘Dhalgren’ di Samuel Delany è una città-prosa, un labirinto, un vasta costruzione in cui il lettore impara ad entrare per una molteplicità di porte (..). Non l’ho mai capito. A volte ho avuto la sensazione di capirlo in parte, o che mi stessi avvicinando al punto di capirlo. Ciò non mi ha mai causato il minimo disagio, né ha interferito in alcun modo con il piacere del testo. Se mai, è stato vero il contrario. ‘Dhalgren’ non è qui per essere infine capito. Credo che il suo ‘enigma’ non sia stato concepito per essere ‘risolto’.

Soprattutto, Gibson individua nel romanzo il ritratto degli USA degli anni ’60, aperti a evoluzioni che già vent’anni dopo apparivano ormai impossibili.

L’acuta introduzione di Gwyneth Jones sostiene piuttosto che

solo marginalmente di genere, ma infuso di sensibilità di genere, ‘Dhalgren’ usa la follia, la malattia mentale individuale e la pazzia istituzionalizzata della società come strumento per estraniare, rendendo l’estraneo familiare e il familiare estraneo. Un giovane, affetto da amnesia; sentendosi, con piacere e disgusto mescolati, irredimibilmente sporco e brutto, discende nell’inferno di una ‘città ferita’ che è a un tempo il suo sé perduto e una drammatica raffigurazione degli USA urbani, piagati e afflitti. Ritto all’orlo dei suoi tempi, guarda nel fertile caos come in una sfera di cristallo: per smascherare bugie immemorabili e scoprire la sua vera identità.

Per chi ama il Solarpunk, il romanzo è provocatorio e stimolante: anche se le sue atmosfere sono sempre nuvolose e fumose come ormai da cliché distopico, si tratta piuttosto della fumosità di un futuro da creare. Anche se manca il tema ambientale, vale la pena riflettere sulla forma che potrà prendere una società dove lavoro e produzione non sono più imperativi quotidiani.

Antonio Ippolito
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