di Stacey Balkan, traduzione di Silvia Treves

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Solarpunk come politica

Solarities si conclude con una domanda retorica, che Timofeeva riprende immediatamente in Solar Politics: “Può la tecnologia solare, prodotta attraverso lo sfruttamento del lavoro e della natura, alimentare un’utopia?”. La monografia di Timofeeva è incorniciata da un sonoro “no”.

Allieva di Bataille, Timofeeva chiede che la solarità sia una condizione fondamentalmente utopica, in cui il sole è un “compagno”, un alleato in un assemblaggio di più specie che costituisce una “solidarietà cosmica”. Un tale immaginario cosmico romperà “il circolo vizioso prometeico di culto ed estrattivismo” che ha caratterizzato a lungo la politica energetica della patria siberiana di Timofeeva.

Timofeeva sostiene una “politica solare” rivoluzionaria che risuona con l’appello del Collettivo After Oil per una “solidarietà orientata alla solarità” (1). Si accorda anche con uno dei mandati centrali del solarpunk: la creazione di un bene comune collettivista e multispecie. Si tratterebbe di un bene planetario – una “solidarietà cosmica” per eccellenza – ma anche di un bene decentralizzato, le cui infrastrutture energetiche sono spazi condivisi.

Alcuni potrebbero obiettare che un tale bene comune è una fantasia utopica, senza alcuna base materiale. Ma, come si sta già vedendo in luoghi come Porto Rico, Hawaii e Highland Park, questo non è vero. Intendere il sole come un compagno promette un’infrastruttura vibrante costruita su un immaginario energetico radicalmente trasformato.

Solarpunk come rivoluzione estetica

I beni comuni planetari immaginati da Bataille e Timofeeva sono efficacemente realizzati in molti dei racconti raccolti in Città multispecie. L’introduzione si apre di conseguenza: “Nel reimmaginare la vita delle città future non come distopici vicoli ciechi o acquari di un progresso intelligente, ma come possibili modelli per un futuro multispecie speranzoso e inclusivo, i narratori di questo volume svolgono non solo il loro ruolo consolidato di esteti di un’epoca colpita, ma anche di progettisti e navigatori di un domani da attendere con ansia”. Un domani in cui le città sono reimmaginate come “habitat più che umani che ospitano diverse forme di vita”, dove “possiamo imparare a negoziare, coesistere e prosperare insieme”.

Le storie raccolte nel volume rifuggono dai “vicoli ciechi distopici” che sono fin troppo popolari nell’ambiente mediatico di oggi. Prendiamo, ad esempio, il racconto di Kate V. Bui Deer, Tiger, and Witch [Cervo, tigre, strega], che sfida le logiche lockeane, la violenza dei coloni e le fantasie muskiane di geoingegneria. Probabilmente, il racconto di Bui presenta il modello più valido per realizzare un immaginario solarpunk: un mondo in cui “l’umanità [non è più] un singolo organismo, le cui cellule scorrono lungo arterie fatte di combustibili fossili ed elettricità”.

Cervo, tigre, strega presenta queste iniziative di bioingegneria come una sorta di bonifica fungina, una versione degli sforzi di mico-riparazione per smantellare il suolo contaminato da idrocarburi. Ambientata in un Vietnam del futuro – dopo che i francesi hanno “cambiato in modo permanente il linguaggio simbolico del [popolo]” e generazioni di agricoltura in stile piantagione hanno contribuito alla rovina dell’ambiente – la storia immagina un mondo in cui i prodotti a base di petrolio sono stati “divorati” da “fioriture di lieviti polimertrofici bioingegnerizzati” e una “specialista del biorisanamento” impiegata dallo Stato, di nome Thu, viaggia per le campagne per soddisfare le esigenze degli agricoltori locali. Thu si imbatte in un villaggio dove una madre si vanta del giardino “oppositivo” della figlia, in cui “nulla è piantato in file”. Al contrario, il giardino è un “tripudio” di vita e tutto è “interconnesso: cervi, tigri, persone, piante”.

In un’arena illuminata con “luci bioluminescenti”, le tigri vengono attaccate ai “cervi sika”. Quando una bambina sola, che fa amicizia con il cervo, cerca di smantellare questa tradizione, le viene ricordato che l’ecologia condivisa di cervi, tigri ed esseri umani non privilegia nessuna specie. È significativo che questa illustrazione dell’ecologia condivisa parli anche di un obiettivo centrale delle Città multispecie in senso più ampio: rappresentare una comprensione più sostanziale della giustizia multispecie. Secondo i redattori, “la giustizia multispecie non significa semplicemente concetti semplici di cura, tutela e “vivere e lasciar vivere”, ma piuttosto agire in modo reattivo e responsabile sia nella vita che nella morte”.

Se intendiamo il solarpunk come un’articolazione immaginativa sia di una “solarità solidale” sia di una figurazione dell’ “economia generale” di Bataille nella sua attenzione alla giustizia multispecifica, il racconto di Bui è un esemplare conciso del genere. Inoltre, con la sua attenzione alle fonti rinnovabili come mezzo per sostenere non solo una rete energetica, ma un vero e proprio tripudio di vita collaborativa, la storia dimostra la fattibilità di tali infrastrutture. (Ricordate le luci bioluminescenti che illuminano i rapporti tra più specie?).

Naturalmente, questa raccolta di racconti offre anche esempi di trasformazione della rete che potrebbero sembrare più familiari, cioè più in linea con un modello prometeico. Il racconto A life with Cibi  [Una vita con Cibi] di Natsumi Tanaka è ambientato in un’infrastruttura dinamica, dove un “sistema centralizzato modifica continuamente i percorsi degli autobus e ottimizza gli orari in base alle nostre esigenze”, in gran parte alimentato dall’energia del sole. Il racconto ha anche uno slancio satirico per sottolineare le nozioni non così “semplici di cura e tutela” che accompagnano un immaginario multispecifico.

Una vita con Cibi presenta una strana relazione tra un protagonista umano e il suo coinquilino, che le risulta stranamente familiare… e possibile pasto. In questo mondo, “Cibus-cibo in latino” è il nome dato a forme simili a quelle umane create attraverso la fotosintesi artificiale. Queste “creature commestibili” sono “progettate per ridurre al minimo l’impatto umano sull’ambiente” funzionando come sostituti della carne. “Una coltura artificiale coltivata in un campo, i Cibi spargono le loro foglie al di sopra del terreno, crescendo sottoterra come le patate”, ci viene spiegato. “Una volta cresciuti, i Cibi vengono spediti al mercato. Organismi autosufficienti, assumono acqua da soli ed effettuano la fotosintesi”. Data la loro forma umanoide, molti esseri umani si affezionano a loro; diventano animali domestici e persino amici. Ma “l’aspettativa di vita di un Cibus addomesticato può essere prolungata con l’affettamento”. L’implicazione è che queste creature devono essere affettate.

Si tratta quindi di una narrazione tecno-utopica con un tocco swiftiano. In linea con l’imperativo di trasformare non solo le nostre fonti di combustibile ma anche la nostra etica, il lettore è costretto a confrontarsi con una forma praticabile di sostenibilità agricola resa possibile da una concezione radicalmente diversa della responsabilità sociale. In questo senso, potremmo anche leggere il Cibus come un’istanziazione del non umano putativo, nella forma di ciò che Jason Haslam ha descritto (nel contesto del racconto magico realista di China Miéville Covehīthe) come una sorta di weird climatico immaginativamente produttivo. La stranezza funziona qui come un mezzo per complicare gli assemblaggi georaciali che inquadrano il pensiero dell’Antropocene: la distinzione, ad esempio, tra “vita” e “non vita”, secondo pensatori come Kathryn Yusoff, per cui la “non vita” istanzia un’alterità fondamentale.

Uno dei racconti più pratici della raccolta, in termini di lavoro effettivo verso un mondo al di là dell’estrazione, è Children of asphalt [I bambini dell’asfalto] di Phoebe Wagner. Questa storia, una sorta di favola, invita i lettori a considerare la virtù di ascoltare i bambini, partendo dal presupposto che l’urgente trasformazione che ci attende richiede un nuovo “vocabolario dell’immaginazione”, non limitato da quella che Timofeeva, seguendo Bataille, ha descritto come la logica violenta della ragione.

La storia è ambientata in un futuro in cui l’asfalto – quella “roccia catramata che disseminava la città” –  è stato rimosso nell’interesse di coltivare la terra per un vivace assemblaggio di “parenti” umani e non umani. Ricordando la natura stravagante del racconto realista magico di Gabriel García Marquéz L’annegato più bello del mondo – in cui una figura si bagna a riva e gli abitanti del villaggio popolano collettivamente la sua stirpe mitica – Wagner descrive una creatura anfibia e sconosciuta che arriva dall’Oceano Pacifico per creare nidi per le madri incinte in arrivo. Non diversamente dal tragico Esteban di García Marquéz, che alla fine colonizza il piccolo villaggio che lo ha accolto, il “landrus” trasforma tutta la terra costiera coltivabile in una rete di nidi.

All’ombra di questa bestia fantastica, “biologi, bibliotecari e archivisti” si sforzano di capire il suo strano comportamento; nel frattempo, negli esseri portati a riva, i bambini del luogo riconoscono semplicemente i “parenti” e si attivano per accoglierli, creando “sentieri… con slitte e impronte [per incoraggiare] i genitori in arrivo verso i percorsi più sicuri”. In una svolta radicale della familiare favola postcoloniale in cui il colonizzatore viene satireggiato e il villaggio pianto, questa è una favola sul cambiamento climatico in cui l’adattamento viene abbracciato, e non solo come strumento necessario per la sopravvivenza. Qui, “i biologi sono entusiasti di assistere al processo di nascita. Gli addetti ai lavori e i coltivatori valutano se il letame possa essere un buon fertilizzante. I cercatori di proteine si chiedono cosa potremmo fare degli anziani una volta che saranno passati a miglior vita. Gli archivisti registrano la storia per il domani. … E i bambini ci insegnano come coprire l’asfalto”.

Nella sua implicita critica a quella che potremmo intendere come una logica imperiale – che vede il landrus, per esempio, come una “risorsa” o una semplice “specie” – la storia invita i lettori a considerare la follia di aggrapparsi non solo a protocolli intellettuali superati, ma anche alla pericolosa arroganza che continua a offuscare il nostro pensiero (2). Questa favola offre anche un’azzeccata metafora della nostra attuale situazione, con politiche climatiche perfezioniste che lasciano sempre più spesso i nostri politici con le mani in mano e le nostre città affogare.

Solarpunk come worldbuilding

Finzioni come quelle di Multispecies Cities ricordano ai lettori che l’immaginario solarpunk non è una mera fantasia tecno-utopica. Tuttavia, sono pieni di ostacoli del mondo reale, tra cui il mito duraturo secondo cui l’ostacolo principale alle infrastrutture rinnovabili è la questione della cattura e dell’immagazzinamento dell’energia. Nel frattempo, i veri ostacoli sembrano essere di natura ideologica e strategica. Da un lato, continuiamo ad affrontare l’assurdità libertaria che – di fronte a cambiamenti cataclismatici del clima globale, a una pandemia letale e alla reale possibilità di un picco del grano – insiste nel suo impegno moralmente fallimentare per una sorta di libertà individuale. D’altra parte, gli attivisti per il clima potenzialmente ignorano un errore strategico – come dice Andreas Malm, nella sua polemica How to Blow up a Pipeline del 2021 nelrifiutare mezzi più dirompenti per smantellare le infrastrutture dei combustibili fossili.

Malm ha ragione: dato l’aumento esponenziale del carbonio nell’atmosfera – che ora sta producendo ondate di calore letali ed eventi meteorologici catastrofici come quelli che affliggono abitualmente il mio stato natale, la Florida – aspettare una rivoluzione socialista o riporre la nostra fiducia collettiva nella protesta nonviolenta prima di combattere il cambiamento climatico potrebbe essere insostenibile (3). Probabilmente, anche l’appello di Bataille a un consumo e a una spesa più consapevoli potrebbe essere insostenibile: per esempio, mentre le misure che limitano il consumo all’essenziale hanno avuto un certo successo durante il blocco del COVID-19, il pendolo si è rapidamente e violentemente ribaltato. È plausibile che solo una rivoluzione come quella auspicata da Malm possa garantire la sopravvivenza della vita sulla Terra.

Eppure. Nonostante la miriade di esempi di violenza produttiva, le conseguenze negative di tale violenza sono spesso a carico dei lavoratori industriali e delle loro famiglie, piuttosto che dei loro padroni aziendali. Di conseguenza, trovo un valore molto maggiore nel potere trasformativo dell’immaginazione e sono attratta, di conseguenza, dal potenziale generativo, strumentale e di costruzione del mondo del solarpunk, dalla sua capacità di immaginare nuove infrastrutture e assemblaggi praticabili.

Le visioni del disastro planetario “ci lasciano una comprensione intuitiva dell’infrastruttura come fonte quasi necessariamente di attrito o di impasse”, osserva l’antropologo Dominic Boyer, nella sua incisiva argomentazione sulle “infrastrutture rivoluzionarie” (4). I mondi Solarpunk, invece, sono radicati in logiche infrastrutturali che promettono una strada percorribile (e veramente rivoluzionaria).

Questo articolo è stato commissionato da Gretchen Bakke.

traduzione di Silvia Treves

Stacey Balkan è assistente alla cattedra di Letteratura ambientale e scienze umane presso la Florida Atlantic University, dove ricopre anche il ruolo di membro di facoltà affiliato all’Iniziativa per la pace, la giustizia e i diritti umani dell’Università. È co-editor di Oil Fictions: World Literature and our Contemporary Petrosphere (Penn State Press, 2021) e autrice di Rogues in the Postcolony: Narrating Extraction and Itinerancy in India (West Virginia University Press, 2022) e di numerosi saggi sull’energia.


Note

1. Secondo la Timofeeva, la “politica solare” dà il nome a un “percorso”: una negoziazione tra luce e oscurità, che la filosofa codifica moralmente attraverso una spiegazione di quelli che definisce “due tipi di violenza”. L’introduzione di Solar Politics traccia una distinzione tra teologia politica (e una visione socratica della solarità) ed economia (ad esempio, il sole come combustibile). Il libro è poi interessato a tracciare la relazione tra le forme di violenza – inclusa la violenza “restrittiva” della ragione e del capitale – e il ruolo dell’energia solare nel coltivare una “solidarietà cosmica”, inclusiva di tutti i soggetti solari. La violenza è un tema centrale in questa discussione sulla politica solare, dato il rapporto tra violenza e ragione – o, in effetti, l’espressione della violenza come ragione. La “ragione” ha funzionato storicamente come mezzo per mettere in atto forme formidabili di violenza contro il “non umano”, inteso da Bataille (e da Timofeeva, che cita a questo proposito Kathryn Yusoff) come comprensivo di quelle persone storicamente riducibili alla logica delle risorse del capitalismo estrattivo. Timofeeva offre anche una ricca genealogia della violenza, comprensiva della dialettica manichea di “bene” e “male”, o della violenza dell’oppressione di classe e dello stato carcerario, attraverso una discussione del lavoro di Georges Sorel, Walter Benjamin, Frantz Fanon e Georges Bataille. Timofeeva è interessata a rintracciare sia la violenza invisibile dello Stato sia la “violenza emancipatrice” della rivoluzione, o dello sciopero classicamente marxiano caratterizzato in opere come Riflessioni sulla violenza. di Sorel del 1908. Naturalmente, Sorel, Benjamin, Fanon e Bataille sottoscrivono tutti una violenza emancipatrice, ma le valenze politiche di ciascuno scrittore sono cruciali per generare e comprendere la fedeltà politica di Timofeeva a Bataille.

2. Si vedano anche le discussioni sulla natura problematica di quella che le scienze umane dell’energia definiscono una logica delle “risorse”, in cui la vita planetaria, nelle sue molteplici forme, è riducibile a un inventario di beni fungibili. Brent Ryan Bellamy e Jeff Diamanti offrono una splendida discussione di questa problematica nella loro introduzione a Materialism and the Critique of Energy (MCM, 2018).

3. Andreas Malm, Come far saltare un oleodotto (Verso, 2021).

4. Il saggio di Dominic Boyer “Revolutionary Infrastructures” appare in Infrastructures and Social Complexity: A Companion, a cura di Penny Harvey, Casper Bruun Jensen e Atsuro Morita (Routledge, 2017).

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