Silvia Treves
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Il non umano è solo merce

In un articolo intitolato Crisi climatica e il non umano8, Gaia Naldini Piva pone domande pregnanti, che riecheggiano quanto già detto, a partire da questa osservazione iniziale:

L’attuale sistema economico, e in particolar modo l’industria dei cibi animali, non si limita a vedere le altre specie viventi come creature «inferiori», ma le considera mera merce da immettere sul mercato8.

Questa frase mi ha fatto riflettere sul rapporto malato che intratteniamo con gli animali con cui non conviviamo: godiamo della spettacolarizzazione di “animali” selvatici che in natura forse non incontreremo mai, ma difficilmente tocchiamo da vivi animali come quelli che mangiamo o di cui consumiamo i prodotti. Forse perché tutto ciò che riguarda i corpi e la morte viene spinto lontano dalla nostra vita? Quelli che vediamo al supermercato non sono state creature vive, solo tagli di carne, questo preferiamo credere.

Torniamo alle domande di Naldini Piva:

  • A. La lotta ai cambiamenti climatici è davvero compatibile con un sistema economico che antepone la ricerca del profitto alla sopravvivenza, alla salute e al benessere del pianeta e delle specie che lo abitano?
  • B. È possibile sradicare le derive antropocentriche, cercando di superare la netta separazione dicotomica tra natura/cultura, e tra animalità/umanità?

Il rischio di inferiorizzare e reificare, dice l’autrice, è sempre presente, che l’Altro appartenga a un’altra specie oppure a una diversa cultura. Eppure,

la linea di demarcazione tra natura e cultura e tra umanità e animalità non è assoluta e universalmente valida, dato che in molte società non occidentali e “premoderne” questa appare molto più labile e incerta8.

Quindi, combattere soltanto lo specismo non basta. Nella migliore delle ipotesi la lotta potrebbe ottenere un trattamento meno crudele, ma, osserva Federica Timeto in Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie9,

per quanto si voglia immaginarne e progettarne [degli animali degli allevamenti] il benessere, insomma, oggi negli allevamenti intensivi le scrofe continuano a essere trattate come “macchine da salsicce”, le galline come “macchine da uova” e le mucche comemacchine da latte”9.

E anche Donna Haraway, nel corso dell’intervista rilasciata a Timeto, chiarisce la propria posizione in proposito:

le filiere agroindustriali contemporanee si servono di pratiche che prevedono la nascita forzata, o la schiusa forzata delle uova, per miliardi di esemplari, il tutto per rendere sterminabile il risultato di queste nascite e schiuse forzate. La nascita forzata conduce alla morte forzata per la produzione di cibo, che tra l’altro è sempre prodotto in eccesso e mal distribuito. Questo è chiaramente inaccettabile, senza ombra di dubbio9.

Anche su questo tema la fantascienza si è spesso sbizzarrita, come dimostrano, per esempio, ben tre racconti dell’antologia Solarpunk Storie di ecologia fantastica in un mondo sostenibile, a cura di Gerson Lodi Ribeiro (ed. or. 2012, ed. italiana Le Mezzelane 2021).

Il racconto Una vita con Cibi10affronta il tema della nutrizione in maniera surreale presentandoci Cibus, una creatura che cresce sottoterra come le patate. Una volta estratta dal campo, comincia a fotosintetizzare passando dalle dimensioni di un neonato a quelle di un piccolo umano. Le orecchie da coniglio consentono di individuarla per strada e lo zainetto che porta sulla schiena contiene un coltello. Cibus lo porgerà a chi ha fame, permettendogli di affettarla, o cambiando aspetto qualora la forma umana risulti disturbante. Le reazioni degli umani ai Cibi, creature abbastanza indipendenti da vivere per strada e da parlarti mentre ti servi, va dall’indifferenza all’affezione. L’incontro tra consumatore e Cibus ricorda vagamente i pranzi serviti in Ristorante al termine dell’Universo (1980) ma, mentre Douglas Adams era sarcastico, Natsumi Tanaka è problematico e il rapporto umano/Cibus decisamente complesso.

“Lethe” di Tahir Tanis, Stoccolma (Svezia)

Oltre lo sfruttamento e il consumo del non umano

Oltre che crudeli, gli allevamenti intensivi sono terribilmente inquinanti e producono una quantità inquietante di gas serra, come segnala anche un recente documento della LAV (Lega Antivivisezione)11:

  • – almeno il 21% delle emissioni di CO2 deriva dalla respirazione degli animali allevati;
  • – il 72% del metano antropocenico proviene dai processi digestivi dei ruminanti e dall’evaporazione dei composti presenti nel letame;
  • – il 65% del monossido di azoto, il peggiore dei gas serra, è dovuto all’evaporazione del letame.

Ma, scrive Naldini Piva, la maggior parte dei gas serra prodotti dagli allevamenti intensivi sono causati dalla deforestazione selvaggia e indiscriminata: il 70% delle aree deforestate in Amazzonia sono occupate dai pascoli, mentre il terreno restante viene utilizzato per la coltivazione di foraggio.

Ovviamente le aree deforestate erano “casa” per creature animali umane e non di ogni tipo e per milioni di alberi, sottobosco, microorganismi. Gli allevamenti intensivi, e tutto ciò che si portano dietro, sono un disastro globale.

Non basta: intersecando tutte queste informazioni il discorso può ancora allargarsi: chi difende ciò che resta delle foreste in America Latina?

Secondo i dati della ong Global Witness12, nel 2020 nel mondo sono statə uccis* 227 attivist*; il 75% degli omicidi è avvenuto nelle Americhe. A costar loro più spesso la vita è la battaglia contro la deforestazione: quasi il 70% delle morti ricade in questo ambito.

Ancora ritorna il discorso che percorre tutto questo articolo: ciò che accade non è casuale, dietro l’Antropocene ci sono il Capitalocene, il colonialismo, le forze che consumano il pianeta che noi vogliamo salvare. In conclusione

la “questione ambientale” più che essere una conseguenza del capitalismo ne sarebbe una dimensione costitutiva, nel senso che l’attuale sistema economico si fonda proprio – seppur non solo – sulla subordinazione della natura, umana e non-umana, alle necessità di produzione e accumulazione della ricchezza8.

Il capitalismo, però, ha molti modi per silenziare chi si oppone al consumo smisurato del pianeta e uno, molto efficace, è quello di screditare. Ne parla Giacomo Pasini in un articolo dello scorso anno13dedicato ai saperi tradizionali delle comunità locali, spesso snobbati dalla scienza ufficiale.

Il recupero di questi saperi non è un modo di contrastare la scienza o di rifugiarsi in un passato felice, ma lo studio delle forme di conoscenza di chi ha imparato sul campo l’azione “non sull’ambiente, ma nell’ambiente”. Nel tentativo di uscire dalla più nera crisi climatica, un confronto tra il sapere ufficiale e quelli autoctoni sembrerebbe una scelta di buon senso. Invece come se ne parla? Sono saperi tradizionali, quindi appartengono al passato, sono locali, quindi limitati a un dato territorio e irripetibili altrove, sono saperi indigeni, quindi lontani da noi occidentali, e sono popolari, perciò del volgo, subalterni. E c’è di peggio:

La pretesa di universalità delle categorie e delle conoscenze occidentali non ha però semplicemente operato una delegittimazione dei saperi altrui; in molti casi i genocidi perpetrati dalla macchina coloniale sono stati accompagnati da vere e proprie forme di cancellazione della cultura e dei saperi13.

Ma perché? L’autore fornisce questa interpretazione:

L’idea più diffusa all’interno del dibattito pubblico occidentale è che la soluzione alla crisi climatica e ambientale arriverà dal mondo della tecnologia e dell’innovazione, in grado di guidarci oltre l’era dei combustibili fossili e di accompagnarci verso una transizione ecologica: in pratica si vuole credere che il sistema capitalistico intende offrire una soluzione per la crisi che continua a esacerbare13.

Il racconto Il pittore di alberi14, di Suzanne Palmer, tratta questo tema allargandolo alla colonizzazione di un pianeta. Due concezioni del mondo si fronteggiano: da una parte i colonizzatori, ben decisi a impadronirsi del pianeta, dall’altra gli Ofti, diversissimi dagli umani, portatori di una cultura a bassa tecnologia ben integrata nel pianeta e grandi asrtisti. Avendo scoperto “che gli animali locali erano creature intelligenti” solo dopo aver invaso il pianeta, gli umani decidono di isolare con un alto muro una parte dell’ecosistema più vicino alla loro base, in modo che i nativi non si rendano conto dello scempio in atto. Ma il mondo vegetale invaso è costretto a ritirarsi, incalzato dalla nuova erba che i terrestri hanno piantato. Nel Consiglio terrestre, costituito da pianificatori coloniali e qualche studioso di civiltà aliene, l’avidità e la pavidità impediscono qualunque decisione decente. Come dice Tski, il nativo sempre più consapevole della situazione:

Non ti posso fermare […] adesso però è troppo tardi, Siete un popolo strano, molle, e vi muovete come se foste sempre sul punto di cadere; invece sono tutti gli altri intorno a voi che cadono e non si rialzano più. […] sarà così anche per noi.

“Eterna amica” di Tahir Tanis, Svezia

Violenza lenta

Spostiamo il punto di vista per osservare un altro processo, collegato a tutti quelli esaminati, grazie a Cosimo Gragnani. La violenza lenta è quella a cui sono sottoposte molte comunità che vivono in un contesto in cui

la soglia di accettabilità e la consapevolezza locali vengono costantemente negoziate attraverso la costruzione della visibilità o dell’invisibilità degli impatti delle emissioni nocive sulla salute e la vita degli esseri umani e non-umani coinvolti, sottomessi agli interessi economici e politici legati alla produzione industriale inquinante nell’epoca dell’Antropocene15.

Fra le tante ingiustizie del Capitalocene, dice l’autore, va segnalata l’asimmetria della loro distribuzione: le comunità che storicamente hanno contribuito meno alle emissioni di gas serra, alla produzione industriale tossica e/o alla deforestazione sono quelle che ne subiscono gli effetti più devastanti. Una “geografia della disuguaglianza” che può significare la distruzione di ecosistemi, di relazioni e di un futuro e che coinvolge non soltanto altri continenti, ma anche il Italia, vicino a noi.

Molti esempi scelti da Gragnani sono noti, altri vanno assolutamente letti per non dimenticare che cosa hanno significato in termini di disastro ambientale e di sofferenze. In contesti di industrializzazione tossica – come l’Ex-Ilva, la Solvay e l’Eni – emerge come le comunità siano perennemente esposte a

negoziazioni tra chi ha interessi politici ed economici in queste attività e chi è esposto

quotidianamente alla loro tossicità. Con la popolazione locale viene negoziato costantemente un «patto morale» con l’obiettivo di costituire quella «idea di irrinunciabilità» sotto la quale si celano forti interessi economici e politici, e sotto la quale si vogliono rendere invisibili gli impatti di queste tossine sulla salute e la vita delle persone e degli ecosistemi impattati15.

Anche qui vi sono dei noi ristretti che esercitano la violenza lenta e tante vite umane e non umane di scarto. Il discorso su umani malati, comunità malate e ambienti malati si interseca con tutto quanto ho cercato di suggerire finora. Il termine scarto, però, ci permette di passare a un punto di vista complementare e insieme differente sulla questione.

Jessica Woulfe con Daniel Clarke

Il Wasteocene, l’era degli scarti

Wasteocene è (anche) uno dei tanti nomi proposti per sostituire quell’Antropocene troppo ecumenico, che mette sullo stesso piano tutti gli umani, senza distinzione di responsabilità. Ma il nome ha altre ragioni d’essere oltre al fatto che:

I rifiuti possono essere considerati dunque l’essenza dell’Antropocene, incarnando la capacità umana di influire sull’ambiente al punto da trasformarlo in una gigantesca discarica16.

In realtà, l’autore e i suoi collaboratori intendono

inquadrare i rifiuti nell’azione che li produce, come un insieme di relazioni socio-ecologiche che creano persone e luoghi di scarto16.

Armiero sottolinea l’essenza del termine scartare: scegliere che cosa ha un valore e cosa non lo ha. Da una parte un paradiso pulito, di grande valore economico e abitato da pochi, dall’altra la grande discarica e tutta la gente condannata ad abitarla, priva di difese e talmente manipolata e ricattata che finisce per credere alla ineluttabilità e alla naturalità della separazione. Ecco  cosa sono le storie del Wasteocene: storie di

esseri umani e non umani di scarto, e dunque luoghi e storie scartate16.

Numerosi studi mettono in luce la relazione perversa per la quale impianti inquinanti e discariche vengono collocate in zone abitate dalle comunità più fragili, emarginate e con meno potere di contrastare le decisioni prese dall’alto. Il libro di Armiero è pieno di storie di questo tipo, passate e presenti, lontano mezzo mondo dall’Occidente, oppure vicinissime.

Il Wasteocene ha il potere di dire il vero, ossia di considerare le ingiustizie non come effetti collaterali, quasi invisibili, ma come l’elemento forte di un sistema che produce ricchezza attraverso l’alterizzazione di coloro che devono essere esclusi16.

Armiero sottolinea che, più degli scienziati, sono stati scrittori e registi a influenzare il nostro immaginario collettivo sul futuro. Lo scarto ha rappresentato un punto chiave dei loro scenari. La cifra della narrativa fantascientifica apocalittica è “la devastazione globalizzata”. Alcuni hanno rappresentato la devastazione come prodotto di una improvvisa apocalisse, ma Anna Tsing, più che una frattura, vi legge una sorta di slittamento progressivo di ciò che percepiamo e accettiamo come vivibile.

Con numerosi riferimenti (dalla saga di Mad Max a film post apocalittici come La Strada e Elysium, alla serie televisiva brasiliana 3%) l’autore argomenta come

L’interconnessione tra corpi malati, disuguaglianze ed esclusione è il punto al centro del Wasteocene: la produzione di persone e luoghi di scarto procede parallelamente alla costruzione di comunità esclusive globali16.

Nei capitoli centrali del libro, storie quali il disastro del Vajont, la regione estremamente contaminata della Lousiana chiamata Cancer Alley, le terre arrossate attorno alla Ilva di Taranto, le vicende commoventi di Napoli e dintorni ci danno la misura di quanto e come le comunità malate, umane e non umane, possano imparare a combattere, se resistono all’imposizione della logica del Capitalocene. La perdita, la resa, dice Naomi Klein,

È ciò che ci accade quanto perdiamo le nostre narrazioni. Quando perdiamo la nostra storia, quando finiamo disorientati. Ciò che ci tiene orientati e all’erta, e fuori dal disastro, è la nostra storia16.

Infatti, nell’ultimo capitolo del libro, Armiero racconta storie di grandi momenti di riscatto e pratiche collettive che generano beni comuni e comunità (commoning). Ce ne sono di magnifiche e commoventi che hanno per teatro il Brasile, la Bosnia Erzegovina, ma anche Napoli e Roma.

Quindi vorrei finire citando la storia della Snia Viscosa di Roma, segnalata da Armiero e “raccontata” in un video musicale frutto della collaborazione del gruppo hip hop Assalti frontali e di Il Muro del Canto.

Intitolato Il lago che combatte, il brano narra di un lago che, formatosi in modo naturale all’interno del grande scenario tossico post-industriale dell’ex Snia Viscosa, si stabilizza, richiamando una comunità multispecie difesa da tutto il quartiere, che diviene poi un parco naturale.

A volte la realtà ci sorprende con storie che parrebbero scritte da autor* ottimist*. E invece sono vere.

Silvia Treves

Il presente articolo è apparso su Robot n. 94, Delos Digital 2022


Note

8 Gaia Naldini Piva, Crisi climatica e il non umano, 2021   lavoroculturale.org/crisi-climatica-e-il-non-umano/gaia-naldini-piva/2021/

9 Federica Timeto, Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie, con una intervista inedita a Donna Haraway, Mimesis, Eterotopie.

10 Natsumi Tanaka, A Life With Cibi, in Multispecies Cities: Solarpunk Urban Futures, World Weaver Press. Trad. mia.

11. Cambiamento climatico e allevamenti intensivi, Lega Antivivisezione  allevamenti-intensivi-e-cambiamenti-climatici.pdf

12. Strage di attivisti ambientali, il 2020 l’anno peggiore di sempre  https://www.rinnovabili.it/ambiente/politiche-ambientali/attivisti-ambientali-strage-2020/

13. Giacomo Pasini, Saperi che (r)esistono, 2021 lavoroculturale.org/i-saperi-ecologici-locali-per-resistere-alla-crisi-climatica-e-ambientale/giacomo-pasini/2021/

14 Suzanne Palmer, Il pittore di alberi in «Nuove frontiere», parte 1, Urania Millemondi Autunno/Inverno n. 91 2021. Trad. A. Guarnieri.

15 Cosimo Gragnani, La violenza tossica della modernità, 2021 lavoroculturale.org/la-violenza-tossica-della-modernita/cosimo-gragnani/2021/

16 Marco Armiero, L’Era degli scarti, cronache dal Wasteocene, la discarica globale, Einaudi, 2021, trad. M.L. Chiesara.

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