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Aspettando il film solarpunk per eccellenza e come non trovarsi impreparati alla sua uscita

Riccardo Muzi

Ok, lo abbiamo capito. Ci son voluti anni e decine, se non centinaia, di film, distopici, apocalittici e postapocalittici. Ma finalmente il concetto è ormai oltremodo chiaro: le cose potrebbero andare peggio di come stanno andando adesso. Certo, il nostro comprendonio risulta abbastanza granitico, visto l’impiego di tempo e di energie volto a spiegarci una cosa pressoché ovvia. Ma così è andata e così sta andando. Possiamo però uscirne fuori. C’è una luce in fondo al tunnel: è il raggio del solarpunk.

Insomma, dal genere cinematografico destruens (che serve, per carità), è arrivata l’ora di passare a quello construens: il Solarpunk. C’è solo un ostacolo da superare: un film solarpunk di successo non si è ancora manifestato. Una pellicola alla portata di tutti, la cui essenza immaginifica coniughi futuro alternativo, ecosostenibilità e vivere in armonia con le mirabili offerte della tecnologia. Fantascienza? Beh, sì. In effetti, stiamo parlando anche di questo, ma non perché sia irraggiungibile lo scopo, ma perché il perimetro narrativo attiene al genere suddetto.

Ad ogni modo, ci troviamo in una situazione molto favorevole dal punto di vista dell’approccio cinematografico al nuovo genere. In primis, perché, come dicevamo pocanzi, una pellicola solarpunk per eccellenza deve ancora apparire sui grandi e sui piccoli schermi, e su tutti i nostri inseparabili device; facendoci sentire dei precursori, quasi degli eletti, come fossimo persone che hanno deciso di frequentare una piccola piazza prima che diventi l’agorà. In secundis, perché abbiamo a disposizione un po’ di tempo per fortificare la nostra coscienza filmica, cercando schegge di solarpunk nelle opere del passato, recente e remoto, così da poter partecipare con più consapevolezza all’avvento dell’agognata pellicola.

Intanto non può sfuggire dai nostri solar radar, Last sunrise presentato al Trieste Science+Fiction Festival nel 2019. Opera prima del cinese Wen Ren.

“Si è spento il sole e chi l’ha spento sei tu…”. In realtà nel film il sole si spegne davvero proprio quando, in un futuro prossimo, sulla Terra si è dato fondo a tutto il combustibile fossile, e si è switchato totalmente all’energia solare. Sembrerebbe il classico disaster movie: non è così. Il punto di vista della storia, i protagonisti (ragazzi della porta accanto caricati di problemi personali), e una lunga (forse troppo) riflessione sul genere umano raccontata dai due protagonisti in viaggio verso la speranza, sono gli elementi chiave che contraddistinguono quest’opera (ottima la fotografia, che non guasta).

“Last Sunrise” di Wen Ren

Rimanendo sullo spegnimento del Sole, ci sovviene Sunshine di Danny Boyle. Qui, il sole si deve ancora spegnere, ma sta morendo. Viene approntata una missione spaziale con una sorta di defibrillatore (cariche atomiche) per far ripartire il cuore della nostra stella che sta perdendo i colpi. Sull’Ikarus 2, l’astronave in viaggio verso il sole malandato, comanda il computer di bordo, ma fino ad un certo punto. Tra l’intelligenza artificiale e l’equipaggio si instaura un rapporto dialettico e, nel momento più critico, sarà un membro della missione a prendere una decisione dirimente: l’intelligenza artificiale non viene ritenuta in grado di valutare tutte le variabili in gioco e di considerare la complessità della circostanza. L’uomo riprende in mano il suo destino, consapevolmente. È forse anche questo un probabile scintillio in fondo al tunnel distopico imboccato dall’umanità.

Il mastodontico Interstellar di Christopher Nolan, come il più recente e minore The Midnight sky di George Clooney, ci hanno spiegato che la nostra speranza, una volta “morta” la Terra, sarebbe lo spazio, in quanto infinito e di conseguenza fornito di molte “case” pronte ad accoglierci. Ma se non impariamo dai nostri sbagli, saremmo condannati all’eterna ricerca di un nuovo pianeta da consumare. Così, come dei Galactus qualsiasi, manderemo in avanscoperta il nostro Silver Surfer, per trovare nuovi mondi da spolpare, ad libitum. Ma non è questa la fine che vogliamo fare. Il nostro futuro potrebbe, perché no, vederci impegnati a ristrutturare la nostra di Casa. Con o senza bonus. Sicuramente installando un impianto fotovoltaico. Anche perché la selezione dei candidati per abitare una nuova dimora nello spazio potrebbe scatenare un problema socio-politico non da poco: una futuristica lotta di classe tra chi parte e chi rimane. In un passaggio di Last sunrise, i due protagonisti vedono un oggetto sfavillante allontanarsi nel cielo, lui spiega a lei, sorpresa dall’evento: “sono i ricchi, quelli che si possono permettere un viaggio sullo shuttle per fuggire dalla Terra”.  Elysium di Neill Blomkamp illustra perfettamente questa eventualità: nel 2154 i ricchi vivono su Elysium, stazione spaziale in orbita geostazionaria in cui è riprodotto un perfetto ecosistema terrestre. I poveri, molto più numerosi, vivono su un pianeta Terra ai limiti dell’abitabilità. Le leggi di Elysium contro l’immigrazione si fanno sempre più rigide per salvaguardare il benessere di una élite di privilegiati bloccando chi, dalla Terra, tenta l’irruzione clandestina sulla stazione spaziale (ci ricorda qualcosa?).

“Il pianeta verde” (La belle verte) di Coline Serreau

Ma vuoi vedere che è proprio il concetto di casa a sfuggirci? e non solo cinematograficamente parlando. Forse il tema non è stato ben analizzato o è stato poco dibattuto. Il pianeta verde può aiutarci. Il film di Coline Serreau è una commedia che, grazie l’espediente fantascientifico, ironizza sulla nostra società, quella occidentale soprattutto (la protagonista parte dal Pianeta verde e sbarca sulla Terra, a Parigi). Gli abitanti del Pianeta Verde, sconosciuto ai terrestri, vivono in armonia con sé stessi e con la natura. Anche loro hanno affrontato l’era industriale, che definiscono preistoria, ma dopo averne capito i limiti, ne hanno abbattuto tutti i simboli: gerarchie, industrie, moneta e tutto ciò che rappresenta lo sfruttamento. Vivono all’aperto, dormo nei prati, si lavano nei laghi e soprattutto ascoltano il silenzio… La loro casa non è un appartamento, ma il pianeta intero. Un po’ hippy come soluzione ma estremamente esemplificativa, specialmente se è la soluzione adottata da una civiltà molto più evoluta della nostra.

Tredici anni dopo Il pianeta verde esce un film che non ha nulla a che vedere con l’esiguo budget gestito dalla Serreau, ma che sembra seguire il sentiero tracciato dalla regista francese. Stiamo alludendo ad Avatar (mi perdoni Cameron per questo collegamento ma, parafrasando un vecchio adagio: “non esistono piccoli film o grandi film, ma solo piccoli o grandi registi)”. Avatar è la rivoluzione. Un blockbuster movie che si fa ecologista scegliendo scientemente di non mostrarci la “solita” immanente catastrofe sulla Terra. Rinuncia al pathos apocalittico e si ammanta di epica naturistica. L’estrema cura con la quale Cameron descrive la sua “rivoluzione verde” lancia un messaggio molto chiaro: è possibile raccontare un mondo futuribile, armonico e in simbiosi con la natura, e allo stesso tempo affascinare il grande pubblico. Avatar è ambientato nel 2154, lo stesso anno in cui è ambientato Elysium. Come dicevamo inizialmente: destruens e construens. Anche se, in questo caso, la parte costruttiva arriva poco prima della distruttiva. Avatar è del 2009, Elysium del 2013.

Ma veniamo ai giorni nostri, perché il solarpunk è anche realismo: “Ho la sensazione che tutte le esperienze fatte ultimamente siano paragonabili a qualcosa di onirico… a un sogno, oppure a un film, ma uno di quelli surreali”. È l’incipit di un documentario che, se retrodatato solo di qualche anno, potrebbe sembrare un film di fantascienza. Un film nel quale un’ambientalista di quindici anni accusa in mondovisione i leader politici di aver fallito. Le parole sono di Greta Thunberg e il titolo del documentario è I am Greta, pubblicato di recente. Quando la realtà supera in negativo l’immaginazione, è il momento di porsi domande, e una delle risposte è il movimento solarpunk, fatto anche di attivismo e lotta.

In ogni caso, rimaniamo in attesa del film che consacri il genere e che faccia da tam tam mondiale per noi e per le future generazioni. Nel frattempo, una selezione di opere cinematografiche (lungometraggi, doc e film di animazione) può rappresentare un buon compagno di viaggio per non rimanere soli fino alla scoperta della pellicola “solare”. Per questo prossimamente sarà nostra cura proporre informazioni, segnalazioni e recensioni ad hoc.

Potrebbe essere una lunga o come una brevissima attesa. E se l’attesa del successo mondiale di un pellicola solarpunk fosse essa stessa un successo?

Riccardo Muzi
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