Gabriele Gatto

Introduzione

The Word for World is Forest[i] viene pubblicato per la prima volta nel 1972. Più di cinquant’anni dopo, le questioni affrontate nel testo di Le Guin non smettono di essere fortemente attuali. Scritto durante l’invasione americana del Vietnam, il romanzo è caratterizzato da una decisa condanna di qualsiasi politica imperialista a partire da una prospettiva antiautoritaria che, in maniera innovatrice, si trova accompagnata da una forte sensibilità ecologica.

L’attualità del testo, tuttavia, non deriva solo dalla combinazione di critica politica ed ecologista, ma riguarda anche l’organizzazione di questi elementi all’interno del romanzo. A uno sguardo più attento, esso rivela molto in comune con alcune forme letterarie che sarebbero emerse solamente quarant’anni dopo la sua pubblicazione. Stiamo parlando delle espressioni letterarie del Solarpunk, movimento speculativo caratterizzato dalla volontà di immaginare futuri speranzosi e soprattutto possibili.

In questo articolo andremo a evidenziare i punti di contatto fra il romanzo di K. Le Guin e la letteratura Solarpunk. Cominceremo definendo brevemente le caratteristiche principali del Solarpunk; dopodiché faremo un piccolo riassunto di The Word for World is Forest; infine, analizzeremo alcuni aspetti del romanzo e li confronteremo con quanto avremo affermato sulla letteratura Solarpunk.

Cos’è il Solarpunk?

Definire il Solarpunk non è affatto cosa semplice. Il nome “Solarpunk” appare per la prima volta nel 2008, in un articolo del blog Republic of the Bees intitolato From Steampunk to Solarpunk[ii]. Da allora, artistǝ e teoricǝ hanno interagito con il termine, mescolando idee, approcci e forme artistiche. Proprio a causa di questa pluralità di punti di vista, i confini del Solarpunk sono difficili da stabilire. Come notato da Sarena Ulibarri, “A lot of the tropes and requirements of solarpunk are still being negotiated, among both the writers and artists producing solarpunk works and the bloggers and critics discussing it”.[iii] La stessa nozione di movimento speculativo che abbiamo usato poco sopra è stata proposta da Andrew Dana Hudson, il quale ha voluto però sottolinearne il carattere provvisorio proprio perché non voleva imporre una definizione rigida e univoca di Solarpunk[iv] Le caratteristiche che andremo a identificare come tipiche del Solarpunk, pertanto, devono essere intese in questo senso provvisorio, come una descrizione relativa a questo specifico momento della storia del movimento e alla situazionalità di chi scrive, non come una definizione rigida e autosufficiente.[v] Tenendo questo a mente, possiamo dire che la prima caratteristica che definisce il Solarpunk è la sua forte tendenza ecologista.

Tale tendenza riflette chiaramente la congiuntura storica in cui il Solarpunk è nato, la quale si distingue per la crescente preoccupazione per gli effetti del cambiamento climatico. Il carattere ecologista del Solarpunk si esprime spesso attraverso la rappresentazione di tecnologie ecosostenibili e capaci di esistere in armonia con il mondo naturale. Per esempio, nella poesia Solar Powered Giraffes di Jack Pevyhouse, compaiono giraffe artificiali capaci di purificare delle acque contaminate. Tuttavia, la presenza di queste tecnologie non è la condizione imprescindibile per poter parlare di Solarpunk. In Please di Chloe N. Clark, ad esempio, la tendenza ecologista del Solarpunk si esprime attraverso la figura di una madre che, in un futuro successivo a una non specificata catastrofe climatica, istruisce alcunǝ bambinǝ sulle sue conseguenze sul mondo e sulle persone.[vi]

Altra caratteristica fondamentale del Solarpunk è la sua connotazione politica, espressa in una direzione fortemente antiautoritaria e in opposizione all’individualismo concepito in termini di competizione capitalista. Il movimento privilegia quindi storie con un gran numero di personaggi, la rappresentazione di forme di mutualismo e più in generale di sforzi collettivi per affrontare i problemi ambientali. Ciò accade nel già citato Please, in cui la madre sottolinea il valore collettivo e trans-generazionale della lotta contro le conseguenze dello sfruttamento ambientale. Un altro esempio ci viene da For the Snake of Power di Brenda Cooper, nel quale, sullo sfondo di una Phoenix devastata dal cambiamento climatico, la protagonista e alcune comunità marginalizzate si oppongono alle politiche discriminatorie e potenzialmente letali di una multinazionale del settore energetico.[vii]

Questo ci porta alla terza caratteristica frequentemente associata al Solarpunk, ovvero il suo presunto ottimismo. Non abbiamo qui abbastanza spazio per approfondire la questione come meriterebbe, ma riteniamo che molti dei mondi rappresentati nel Solarpunk difficilmente possano essere considerati ottimisti.

Nel già citato For the Snake of Power, il mondo si trova nel mezzo di innumerevoli guerre energetiche; un altro esempio è A Catalogue of Sunlight at the End of the World di A.C. Wise[viii], in cui l’umanità è costretta a fuggire da una Terra resa inabitabile dagli effetti della catastrofe climatica. È difficile parlare di ottimismo di fronte a queste situazioni, in cui le cose sembrano già essere andate nel peggiore dei modi. Inoltre, la parola ottimismo sembra portare con sé connotazioni di passività slegate da valori esplicitamente politici.

Le storie Solarpunk, tuttavia, mantengono un carattere speranzoso. In For the Snake of Power, la speranza deriva dalla scoperta della lotta politica collettiva, mentre in A Catalogue of Sunlight at the End of the World la coscienza degli errori del passato costituisce la condizione di partenza per la ricostruzione della vita su di un altro pianeta. Riteniamo quindi che, invece di ottimismo, nel Solarpunk sarebbe meglio parlare di speranza critica. Il concetto, proposto inizialmente da Paulo Freire, è stato ripreso da Cherice Bock, che lo oppone innanzitutto all’ottimismo, inteso come qualcosa di passivo. Dopodiché, Bock sottolinea la sua forte componente pragmatica e politica, la quale deve essere intesa all’interno del quadro interpretativo della pedagogia della liberazione freiriana, il cui valore antiautoritario è noto.[ix]

Infine, Bock afferma che la speranza critica si pone a metà strada fra ottimismo naïf e pessimismo catastrofista, evidenziando come la possibilità di trovare soluzioni stia nella nostra capacità di vedere chiaramente i problemi e di non negarli. La speranza critica, dunque, è un’attitudine, un processo politico e un invito all’azione che vede la possibilità di risolvere i problemi sociali ed ecologici nella nostra capacità e volontà di riconoscere tali problemi. Nelle situazioni catastrofiche rappresentate nel Solarpunk, riteniamo, si trova esattamente l’espressione di questa specifica forma di speranza.

L’ultima della caratteristiche fondamentali del Solarpunk è strettamente legata alla speranza critica, ed è la presenza di un tema centrale che sembra attraversare tutte le sue espressioni letterarie. Si tratta della rifondazione del mondo a partire da un mondo danneggiato. Come abbiamo appena notato, i mondi Solarpunk di solito sono ben lontani dall’essere idilliaci, e ciò è sempre legato a un danno, a un trauma subito dalle persone e dal pianeta. Questo trauma non è mai qualcosa che rimane sullo sfondo, ma è parte attiva della narrazione, rendendo le storie Solarpunk l’incarnazione letteraria di quella che Donna Haraway ha chiamato l’arte di restare a contatto con il problema.[x] I personaggi si trovano ad avere a che fare con questi traumi i quali non solo problematizzano il passato, ma informano anche il futuro e la possibilità di costruire un nuovo mondo sulle macerie di quello vecchio.

Avendo esposto, sebbene brevemente e in maniera necessariamente semplificatrice, le principali caratteristiche del Solarpunk, possiamo finalmente tornare al testo di K. Le Guin.

Il romanzo

Innanzitutto, è necessario fare un piccolo riassunto di quanto avviene nel testo. Il romanzo si svolge vari secoli nel futuro. La forma politica dominante è una sorta di capitalismo intergalattico, le cui tendenze colonizzatrici hanno raggiunto altri pianeti, sfruttati per ottenere risorse naturali ormai difficili da trovare su un pianeta Terra inquinato e danneggiato. Uno di questi pianeti, chiamato New Tahiti dallǝ terrestrǝ, è il luogo in cui si svolgono gli eventi del romanzo.

Il pianeta è abitato dallǝ Athshean, lǝ qualǝ hanno molto in comune con lǝ terrestrǝ, essendo il risultato della colonizzazione del loro pianeta da parte dellǝ Hainish, razza aliena ora pacifica ma con un passato coloniale che, milioni di anni prima, aveva colonizzato anche la Terra, sancendo la nascita delle popolazioni umane terrestri. Lǝ Athshean, chiamatǝ spregiativamente “creechies” dallǝ terrestrǝ, sono piccolǝ, matriarcalǝ e pacificǝ, ossia le vittime perfette della dominazione coloniale. Non usano violenza né tra di loro, né contro lǝ colonizzatorǝ, perlomeno fino a quando Selver, il protagonista del romanzo, non guida una rivolta per vendicare il violento omicidio della moglie e per mettere fine una volta per tutte allo sfruttamento sociale e ambientale. La rivolta sarà un successo, e costringerà lǝ terrestrǝ ad abbandonare il pianeta. Prima dello scoppio del conflitto, Selver stringe una difficile amicizia con un antropologo terrestre, Lyubov, il quale, pur contribuendo al successo della rivolta, morirà accidentalmente durante uno degli attacchi dellǝ Athshean contro l’occupazione. Questa ha il suo leader nel violento capitano Davidson, che dopo la sconfitta sarà esiliato su di un’isola deserta.

Il romanzo ha chiare connotazioni ecologiste, a cominciare dall’azione coloniale terrestre dovuta, fra le altre cose, alle pessime condizioni in cui versa la Terra. La situazione rappresentata, insieme alla devastazione portata a New Tahiti, è un’evidente critica dell’estrattivismo capitalista. Tuttavia, la critica ecologica e politica si rafforza in virtù delle scelte formali di K. Le Guin, in particolare grazie alla continua identificazione tra alberi e persone. Per descrivere la sua vecchiaia, ad esempio, un anziano Athshean usa queste parole: “I have had my whole life. Days like the leaves of the forest. I’m an old hollow tree, only the roots live […] I see the fruit ripening on the branch.”[xi] (P.25); un altro esempio ci viene da Lyubov, il quale, nel descrivere il cambiamento del suo amico Selver, afferma che “He was changed radically: from the root” (P.45); verso la fine del romanzo, Selver esplicita nuovamente tale identificazione accostando la morte delle persone e l’abbattimento degli alberi: “All the killing is done now. And the cutting of trees” (P.70).

Nel fare ciò, la violenza contro gli alberi diventa indistinguibile dalla violenza contro le persone, caratterizzando gli sforzi estrattivisti come essenzialmente autodistruttivi. Inoltre, pensare le due forme di violenza come così indistinguibili significa non poter intendere l’una senza intendere l’altra. Senza voler stabilire una chiara relazione causale, K. Le Guin pare voler evidenziare che il problema non sta semplicemente in questa o quella specifica forma di dominazione, ma nella dominazione in sé. Di fatto, parlando della guerra nel Vietnam e delle ragioni dietro alla scrittura del romanzo, l’autrice afferma: “Moreover, it was becoming clear that the ethic which approved the defoliation of forests and grainlands and the murder of noncombatants in the name of ‘peace’ was only a corollary of the ethic which permits the despoliation of natural resources for private profit or the GNP, and the murder of the creatures of the Earth in the name of ‘man’. The victory of the ethic of exploitation, in all societies, seemed inevitable as it was disastrous[xii] (P.6).

Come nel Solarpunk, dunque, critica ecologista e politica sono alleate in una prospettiva radicalmente antiautoritaria. Il rifiuto totale di qualsiasi forma di dominazione porta K. Le Guin a guardare criticamente anche agli sforzi di liberazione dellǝ Athshean che, sebbene considerati legittimi e necessari, portano con sé effetti negativi. Come osserva Ken MacLeod, “That oppression corrupts the oppressor is well enough known. That resistance to oppression can profoundly change those resisting, and for the worse, is less widely recognised […] The corrupting aspect – the hardening of the heart, the acceptance of casualty and atrocity, the replacement of the moral calculus with a cold-eyed calculation of advantage, of revenge and reprisal – is put out of mind, and sometimes for what seem the best of reasons. That too is part of the damage done[xiii] (P.4).

L’esperienza della dominazione, allora, sembra caratterizzarsi come una ferita, un trauma che rende possibile riprodurre la violenza subita. Grazie all’identificazione tra persone e alberi, nel romanzo questa ferita appartiente tanto al pianeta come alle persone. Parlando della devastazione portata dall’invasione terrestre, Selver afferma: “But all the time I watched the trees fall and saw the world cut open and left to rot” (P.19). Come nel Solarpunk, dunque, siamo di fronte a un mondo danneggiato, condizione di partenza di qualsiasi ricostruzione futura. Oltre alle implicazioni ecologiche, il danno si riversa anche sulla psicologia dellǝ Athshean, lǝ qualǝ devono imparare a convivere con quanto accaduto, con tutta l’incerteza che questo comporta. Lyubov, ad esempio, esprime la preoccupazione che Selver abbia appreso l’odio razziale dopo esserne stato vittima: “Had his fear in fact been the personal fear that Selver might, having learned racial hatred, reject him, despise his loyalty, and treat him not as ‘you’, but as ‘one of them’?” (P.44). Poco dopo, è la voce narrante a evidenziare la questione: “For if it’s all the rest of us who are killed by the suicide, it’s himself who the murderer kills; only he has to do it over, and over, and over.” (P.48). Alla fine del romanzo, Selver esplicita il problema, riconoscendo che “What is, is. There is no use pretending, now, that we do not know how to kill one another” (P.74). In altre parole, lǝ Athshean devono imparare a restare a contatto con il problema (per usare la terminologia di Donna Haraway), a integrarlo nella loro nuova visione del mondo, con la coscienza che quanto accaduto informerà per sempre il loro futuro. Tale consapevolezza occupa le righe finali del romanzo, il cui tono sembra di cupa disillusione: “Maybe after I die people will be as they were before I was born, and before you came. But I do not think they will.” (P.74).

Qui sta l’ultima somiglianza con il Solarpunk. Dietro all’apparente smarrimento, vi è la possibilità della speranza. In primo luogo, infatti, dobbiamo ricordare che, sebbene ci sia stata l’invasione, lǝ colonizzatorǝ saranno poi cacciatǝ con successo, un fatto che non può che essere fonte di speranza. Inoltre, lǝ Hainish, la razza aliena che ha “creato” terrestri e Athshean, pur avendo un ruolo sostanzialmente secondario nel romanzo, rappresentano la possibilità del cambiamento e della soluzione dei problemi dell’umanità. Ancora MacLeod: “[…] in implying that the now wise and compassionate Hainish were themselves invaders and colonizers in the distant past, this tale of damage and destruction carries a small, secret seed of hope for a better future than it depicts” (P.4). Tuttavia, c’è un altro aspetto del romanzo che nasconde la possibilità della speranza.

Lǝ Athshean, al contrario dellǝ terrestri, hanno la capacità di sognare a comando, e usano tale capacità per vedere il mondo più chiaramente e orientare le proprie azioni. Per lǝ Athshean, il mondo del sogno non è meno reale di quello della veglia. Come dice Selver, “Lyubov, who taught me, understood me when I showed him how to dream, and yet even so he called the world-time ‘real’ and the dream-time ‘unreal’, as if that were the difference between them” (P.20). La capacità di sognare è uno strumento in più per intendere il mondo, compreso dunque il presente, e agire di conseguenza. Ciò rende possibile stabilire un parallelismo tra i sogni dellǝ Athshean e la fantascienza. Per K. Le Guin “La fantascienza concepita in modo corretto, così come tutta la narrativa seria, per quanto divertente, diventa un tentativo per descrivere quello che sta effettivamente accadendo”[xiv]; mentre in un’introduzione a The Left Hand of Darkness, afferma che “La fantascienza non prevede; descrive”[xv]. Sogno e fantascienza hanno quindi un valore presentista, possono aiutarci a riconoscere i nostri problemi e di conseguenza a risolverli. In questo senso, la metafora arborea torna di nuovo utile.

Se la parola per “mondo”, per lǝ Athshean, è la stessa che indica la foresta, nel romanzo apprendiamo anche che la parola “sogno” è la stessa che identifica le radici: “It was Selver who had made him understand, at last, the Athshean significance of the word ‘dream’, which was also the word for ‘root’” (P.47). I sogni (e, per noi, la fantascienza e più in generale l’immaginazione) ci permettono allora di radicarci nel nostro presente, nel nostro mondo. Tale identificazione tra sogno, immaginazione e radici sembra un invito ad andare alle radici dei problemi, ad essere radicali. Riprendendo l’idea di dominazione già discussa, essere radicali non significa favorire questa o quella forma di dominazione, anche se apparentemente con buone ragioni, ma rifiutare l’idea stessa di dominio. Così, sognare e immaginare diventano pratiche di liberazione, dei luoghi in cui costruire la possibilità del cambiamento e, di conseguenza, della speranza. Le parole di K. Le Guin che introducono il testo, allora, sono ancora più significative.

In esse, l’autrice racconta della scoperta dell’esistenza del popolo Senoi, “whose culture includes and is indeed substantially based upon a deliberate training in and use of the dream […] When the Senoi child reports a falling dream, the adult answers with enthusiasm, ‘that is a wonderful dream, one of the best a man can have. Where did you fall to, and what did you discover?’ […] adults deliberately go into their dreams to solve problems of interpersonal and intercultural conflict. They come out of their dreams with a new song, tool, dance, idea. The walking and the dreaming states are equally valid, each acting upon the other in complementary fashion” (P.7). Le parole finali di questa introduzione rivelano così la speranza nascosta nel testo: “I thought I was inventing my own lot of imaginary aliens, and I was only describing the Senoi. It is not only Captain Davidsons who can be found in the unconscious, if one looks. The quiet people who do not kill each other are there, too. It seems that a great deal is there, the things we most fear (and therefore deny), the things we most need (and therefore deny). I wonder, couldn’t we start listening to our dreams, and our children’s dreams? ‘Where did you fall to, and what did you discover?’” (P.7).

Il romanzo di K. Le Guin, pertanto, si caratterizza per la sua attualità e per la sua somiglianza con la letteratura Solarpunk, pur essendoci ovviamente delle differenze. L’ecologismo di The Word for World is Forest, ad esempio, è il prodotto di un periodo storico in cui la coscienza dei pericoli del cambiamento climatico non si era ancora sedimentata dell’immaginazione collettiva, mentre nel Solarpunk è esattamente da tale coscienza che nasce la volontà di immaginare futuri più sostenibili. Un’altra differenza ha a che vedere col fatto che il romanzo di K. Le Guin è anche un commento alla guerra del Vietnam, riferimento che, per ovvie ragioni, non fa parte dei temi centrali della letteratura Solarpunk. Pur tenendo a mente queste differenze, comunque, il testo di K. Le Guin e il Solarpunk rappresentano importanti tentativi di affrontare i problemi della loro epoca, e sono qui a ricordarci che la letteratura, lungi dall’essere (solo) un passatempo, é anche un potente strumento per capire il presente e interagire col mondo.

Gabriele Gatto

Note

[i]Il testo si può scaricare gratuitamente al seguente indirizzo: https://theanarchistlibrary.org/library/ursula-k-le-guin-the-word-for-world-is-forest-1

[ii] L’articolo può essere recuperato qui: https://republicofthebees.wordpress.com/2008/05/27/from-steampunk-to-solarpunk/

[iii] ULIBARRI, Sarena (a cura di), Glass and Gardens: Solarpunk Summers, World Weaver Press, Albuquerque, 2018, p.1

[iv] HUDSON, Andrew Dana, Sulle dimensioni politiche del Solarpunk, in FERNANDES, Fabio; VERSO, Francesco (a cura di), Solarpunk: come ho imparato ad amare il futuro, Future Fiction, Roma, 2020, p.8

[v]Per una disamina più approfondita della definizione di Solarpunk fornita in questo articolo, mi permetto di rimandare al mio GATTO, Gabriele, Solarpunk: il futuro tra speranza e fine del mondo, Delos Digital, Milano, 2023

[vi]Entrambi i componimenti di trovano in WAGNER, Phoebe; WIELAND, Brontë Cristopher, Sunvault: stories of Solarpunk and Eco-speculation, Upper Rubber Boot Books, Nashville, 2017

[vii]Il racconto si trova in ESCHRICH, Joey; MILLER, Clark A. (a cura di), The Weight of Light: A Collection of Solar Futures, Center for Science and the Imagination, Tempe, 2018, disponibile a questo indirizzo: https://openpublishing.psu.edu/utopia/content/%E2%80%9C-sake-snake-power%E2%80%9D

[viii]Anche questo racconto si trova in Sunvault.

[ix]Si veda BOCK, Cherice, Climatologists, Theologians, and Prophets: Toward an Ecotheology of Critical Hope, CrossCurrents 66, no. 1 (2016). Per approfondire il pensiero di Paulo Freire, rimandiamo a FREIRE, Paulo, Pedagogia do oprimido, Paz e Terra, Rio de Janeiro, 1987 e FREIRE, Paulo, Pedagogia da esperança, Paz e Terra, Rio de Janeiro, 1997.

[x]Si veda HARAWAY, Donna, Chtulucene: sopravvivere su un pianeta infetto, NERO Editions, Roma, 2020. Traduzione di Claudia Durastanti e Clara Ciccioni.

[xi]Da qui in avanti, tutte le citazioni del romanzo e delle introduzioni di K. Le Guin e MacLeod provengono dall’edizione che si trova nella Anarchist Library.

[xii]Corsivo nostro.

[xiii]Anche qui il corsivo è nostro.

[xiv]K. LE GUIN, Ursula, I Sogni si Spiegano da Soli: Immaginazione, Utopia, Femminismo, SUR, Roma, 2022, p.148. Traduzione di Veronica Raimo.

[xv]Ivi, p.57

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