Giulia Abbate

Alla ricerca dell’utopia e di personagge che la incarnino, nella letteratura di oggi. Questa è stata la sollecitazione alla base della scrittura del presente articolo. Sollecitazione che mi è stata rivolta da Giuliana Misserville, critica letteraria, alle prese con la cura di un numero monografico della rivista femminista Leggendaria. Libri letture e linguaggi.

Si tratta del numero 143, dal titolo “MIXTOPIA”: questa definizione, coniata da Nicoletta Vallorani, indica la contaminazione dei due sottogeneri principali della fantascienza sociale, utopia e distopia; contaminazione attuata principalmente nelle scritture delle donne.

Proprio guardando alle storie con questa lente, ho trovato alcune tracce, raccontate nell’articolo che oggi proponiamo in lettura libera. Con un ringraziamento a Giuliana Misserville, e alla redazione tutta della rivista Leggendaria.

Esplorare la presenza femminista nelle utopie non è un lavoro lungo: l’utopia è un genere praticamente assente dalla narrativa, e lo è da tanto.

Storia interessante, questa. L’utopia, intanto, non è un genere: esiste da prima della codificazione dei generi, da prima della nascita del romanzo. L’utopia è un dispositivo della letteratura filosofica, che immagina programmaticamente un mondo migliore, per dimostrare tesi sociali e politiche, per lo più collettive. Così fa Platone nella sua Repubblica (360 a.C. ca.). Così Christine De Pizan, contro la misoginia dei contemporanei capitanati da Jean De Meung, in La città delle dame (1405). Così Thomas More (L’Utopia, 1516) e Tommaso Campanella (La città del sole, 1602). Così Sarah Scott, che in Millennium Hall (1762) descrive una comunità di sole donne in difesa dell’educazione femminile. Ed è interessante notare come l’utopia delle donne sia esclusa dalla storia ufficiale: importanti utopie femminili, comprese quelle citate, sono recuperabili solo con ricerche «sessuate».

L’utopia è insomma filosofica, prima che letteraria. Quando è calata nella fiction ha forse meno successo, perché la sua natura a tesi la rende più difficile da romanzare. E subisce un arresto, quando la messa in pratica delle utopie versa fiumi di sangue: dalla Rivoluzione Bolscevica in poi,  viene scalzata dalla distopia, l’immaginazione di un futuro peggiore, che nasce proprio come anti-utopia; e non nell’alveo della filosofia, ma in quello del romanzo tout court. L’utopia e la distopia sono correlate, si contaminano e si rovesciano a vicenda. Le donne si sono servite molto di entrambe. L’utopia è stata prevalentemente il modo per sognare un mondo migliore perché libero dalla sopraffazione maschile. La distopia è servita per puntare il dito sull’oppressione patriarcale: Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood ha portato la distopia femminista al grande pubblico, ma ci sono esempi altrettanto significativi. Le distopie e le eroine distopiche sono molte, invece le utopie sono rare, ed eroine utopiche contemporanee praticamente non esistono. A meno che…

A meno che non cerchiamo l’eroina utopica all’interno della distopia. Esistono cioè storie distopiche che elaborano personagge visionarie e attiviste, connessioni umane e letterarie tra il peggio e il meglio possibile, tra l’apocalisse e la ricostruzione: tra la distopia e l’utopia. Penso che questo punto di vista ci porti nuovi contenuti; e che l’eroina femminista sia la dimostrazione che l’utopismo, seppur sottotraccia, è una componente importante e sempre viva nel pensiero delle donne. Le donne praticano una “temperanza” tra i due sottogeneri: li connettono in una relazione di interdipendenza narrativa, espressa proprio dalle eroine che non si limitano a voler sopravvivere, ma costruiscono per le comunità e per il futuro. L’emblema di questa connessione è Lauren Olamina, protagonista dei romanzi di Octavia E. Butler come La parabola del seminatore (1993) e La parabola dei talenti (1998). Tra le macerie di un mondo brutalizzato, Olamina raccoglie, ricostruisce, realizza rinascite. Il suo Seme della Terra è l’utopia che, pian piano e con sacrifici incommensurabili, Olamina realizza in terra: non con la violenza, bensì con una presa in carico e cura della violenza.  

“Oracle of cybernature” di Efflam Mercier, Los Angeles (USA)

Un romanzo di Butler altrettanto interessante, Seme selvaggio (1980), racconta il contrasto tra il ladro di corpi Doro e la mutaforma e guaritrice Anyanwu. Come Olamina, anche Anyanwu è consapevole della propria specificità femminile, e anziché fuggire quando può, fonda una comunità basata su valori di cura, inclusione, protezione dei deboli, rispetto del sacro. Butler è considerata madre dell’afrofuturismo, corrente africana/afroamericana “di lotta” con tratti utopici, che si collega a radici native, dove il femminile è centrale e ha la capacità sciamanica di guarire: la cura non è un destino imposto, ma una competenza che dà potere, parte di energie più grandi. Autrici oggi pluripremiate raccolgono questa eredità in vari modi. Nisi Shawl, già teorica della scrittura dell’Altro, elabora un’utopia steampunk corale, per mettere il Congo al riparo dalla dominazione belga, in Everfair. Nora K. Jemisin, nella saga aperta da La quinta stagione, di eroine utopiche ne crea ben tre. E con Binti, protagonista della trilogia omonima, Nnedi Okorafor conquista gli Young Adult.

Gli Young Adult sono testi di consumo per il pubblico adolescente. Antesignana è la trilogia Hunger Games di Suzanne Collins, saga “di rottura” per diversi aspetti. La protagonista Katniss Everdeen è un’eroina recalcitrante, tormentata dal dubbio, a volte nemmeno simpatica: è riuscita a imprimere una svolta di pensiero, oltre che di mercato. Katniss è la prima di un esercito di anti-eroine, che in futuri totalitari non si limitano a salvarsi (né a servire all’eroe come ancelle sessualmente disponibili, ruolo riservato alle donne in certo “canone”) ma si mettono alla testa di rivoluzioni armate. Una personaggia simile è Beatrice Prior, detta Tris, che nella saga Divergent di Veronica Roth guida la reazione collettiva a un sistema di caste, a partire dalla scoperta della propria difformità. Le distopie Young Adult hanno diversi punti di criticità: sono prodotti di consumo, non certo manifesti di eversione. Ma hanno un successo di pubblico enorme; influenzano il mercato e la cultura popolare; e hanno rimesso in questione la visione tradizionale dei ruoli di genere, specie tra le lettrici più giovani. Queste ultime sono la fetta più consistente dell’intero pubblico: il successo di Hunger Games le ha identificate, e il fatto che oggi la prevalenza degli YA abbia protagoniste femminili le riconosce come soggetti. Tutto ciò nasce con Katniss, paragonata (con invidiabile disinvoltura) a una moderna Giovanna D’Arco.

Proprio la figura della Pulzella è usata da un’altra distopia contemporanea: Il libro di Joan (2017) di Lidia Yuknavitch. Nella stazione spaziale CIEL si sono rifugiati i sopravvissuti (ricchi) al collasso ecologico della Terra, tra i quali Christine Pizan, che contesta l’autocrate Jean De Men (i nomi vi dicono qualcosa?) e difende la memoria della leggendaria Joan. Ci sono poi i flashback sulla Terra, con la devastazione parallela alla storia di Joan: bambina diversa poi arma, poi simbolo… Il romanzo rielabora insomma due figure femminili legate all’utopia e alla lotta. E le inserisce in un discorso radicale, dove il femminile non si prefigura per differenza rispetto al canone ma esprime un proprio paradigma indipendente. Il libro di Joan richiama anche l’ecofiction, parte importante dell’unico movimento letterario del Novecento con tratti utopici, caratterizzato dall’ambientalismo e dal racconto del non umano e dell’ecosistema  come soggetti narrativi e non come meri sfondi. Se Ursula K. Le Guin è riconosciuta come una delle maggiori esponenti di questa corrente nella fantascienza e grande utopista, un saggio capitale per l’ecofiction e per l’ambientalismo, Primavera Silenziosa della biologa Rachel Carson, uscì nel 1962: lo stesso anno di Memorie di una astronauta di Naomi Mitchison, che ci descrive un futuro contrassegnato da contatti con popoli alieni, all’insegna della cooperazione. La protagonista Mary è una «esperta di primo contatto» (prima figura di questo tipo mai descritta in un testo di fantascienza) e nella quiete assorta con cui racconta il suo lavoro, l’amore per i figli non solo umani, le amicizie empatiche con altre forme di vita, possiamo ben intravedere l’utopia dispiegata nelle sue implicazioni emotive e relazionali.

L’ecofiction è pure un anello, in questa ideale catena di rimandi, che ci porta ai nostri giorni e a un possibile ritorno dell’utopia. All’ecofiction si richiama il solarpunk, che recupera l’utopia attraverso il rigetto della distopia. (Ironico, pensando che la distopia nacque come anti-utopia.) Il solarpunk, oggi ancora in nuce, vuole essere non un genere letterario, ma un movimento; non solo immaginare un futuro migliore, ma elaborare strategie per viverci. Nel racconto La compagnia perfetta, uno tra i pochi testi italiani dichiaratamente solarpunk, Romina Braggion immagina una comunità montana e le sue pratiche ecologiche di riproduzione sociale dopo un disastro. Il solarpunk conta diversi manifesti: vi si mette in primo piano la positività, la luce, l’ecologismo, con la radice «solar». «Punk» esprime la rivolta: anarchismo, anticapitalismo, lotta al patriarcato, istanze lgbtqia*. Un contributo femminista è di Sarena Ulibarri, curatrice delle antologie Glass and Garden: Solarpunk Summers (2018) e Glass and Garden: Solarpunk Winters (2020). E gli stili solarpunk sono davvero terreno fertile per istanze che la scrittura delle donne ha sempre aperto per prima.

Nelle diverse correnti e generi qui delineati c’è insomma la presenza e soprattutto lo spazio per nuove utopie, che si esprimano con personagge portatrici di nuovi stili di forza. Concluderei qui: con l’auspicio che le donne scrivano utopia, come e meglio di sempre, e creino eroine utopiche… perché ne abbiamo bisogno tutt*. Nel cupo fondo della distopia, l’eroina utopica trova soluzioni praticabili e collettive; nelle realtà più difficili, le donne sono state e sempre saranno le guaritrici della specie. È ora che questi due dati di fatto si uniscano in un chiaro e definitivo riconoscimento: le donne sono le guide e le decisore a cui dare il potere per un futuro migliore, ecologico, equo, femminista. È un invito fieramente utopico, il mio: cioè consapevolmente programmatico. Buone scritture.

Giulia Abbate

Breve bibliografia

  • Figurazioni del possibile – Sulla fantascienza femminista, a c. Laura Salvini, Maria Serena Sapegno, Iacobellis Editore (2008)
  • Quando la fantascienza è donna di Eleonora Federici, Carocci (2015)
  • Donne, ambiente e animali non-umani. Riflessioni bioetiche al femminile – A cura di C. Faralli, M. Andreozzi e A. Tiengo, LED Edizioni universitarie (2014)
  • Il fascino inquieto dell’utopia. Percorsi storici e letterari in onore di Marialuisa Bignami a c. L. De Michelis, G. Iannaccaro, A. Vescovi, Ledizioni (2014)
Il presente post riprende un articolo apparso sul n. 143 della rivista Leggendaria, ago-sett 2020
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