Come annunciato (nell’articolo “Manifest Solarpunk”), apriamo-intrecciamo un nuovo filo, quello dell’amicizia con la rivista catalana Directa.cat, che ci ha contattat* per chiederci l’articolo illustrativo sul solarpunk, appena linkato.

Abbiamo scelto un loro articolo, pubblicato con licenza aperta, e abbiamo chiesto ad Alice Croce Ortega, traduttrice da e per spagnolo e catalano, di tradurlo per noi. La ringraziamo con tutto il cuore del gran lavoro svolto, lavoro che ci permette di gustarci un approfondimento molto interessante sul cinema afro-futurista.

Appassionate e appassionati di fantascienza avranno certamente già sentito questa definizione, per una produzione letteraria che da Octavia E. Butler nutre le narrazioni di Nnedo Okorafor, Nora K. Jemisin, Nisi Shawl, Tlotlo Tsaamase e molte altre. Interessante andare a ripercorrere, grazie a questa interessante retrospettiva di Pol Julià Pascual, il corrispettivo filmico e cinematografico afro-futurista.

Particolarmente prezioso è anche, a mio avviso, il racconto della ricezione di Star Trek da parte degli anziani dagara del Burkina Faso: mi ha ricordato l’esperienza raccontata da Laura Bohannan in Shakespeare in the Bush, in cui la storia di “Amleto” è stata condivisa con le persone della tribù Tiv dell’Africa occidentale, con la domanda: una certa storia parla a tutti in modo universale? La risposta è sorprentente e rivelatoria (e mi porta a pensare che anche un qualche paesino del Veneto potrebbe reagire in modo originale a un confronto simile).

Tutto questo ci aiuta a riflettere sulle strutture e i tropi delle nostre storie, con la consapevolezza che non sono gli unici, né quelli universalmente validi e “naturali”.

Buona lettura! Gaudeix de la lectura!

Giulia Abbate


RUBRICA: ESPRESSIONI
Decolonizzare il futuro attraverso la macchina da presa.
Pol Julià Pascual – 12/12/2022
Traduzione a cura di Alice Croce Ortega
Articolo originale su Directa.cat: Descolonitzar el futur a través de la càmera

‘Neptune Frost’ racconta la connessione tra un minatore di coltan e un hacker intersessuale per rovesciare il totalitarismo di un regime oligarchico e patriarcale


Il cinema afro-futurista è passato dall’incorporare la presenza afrodiscendente nelle narrative proprie della fantascienza al consolidamento di un vero e proprio immaginario africano riguardo al futuro.

Il giorno in cui Malidoma Patrice Somé fece ritorno al suo villaggio nella provincia di Ioba, nel Burkina Faso, era deciso a fare un esperimento. Era dotato di un piccolo generatore elettrico, un videoregistratore e della videocassetta appena pubblicata del quarto film della saga di Star Trek, intitolato Rotta verso la Terra (1986). Quando fece vedere la videocassetta agli anziani della sua comunità, i dagara, il risultato fu sorprendente: a tutti parve che i fatti che si succedevano sulla pellicola facessero parte della quotidianità di qualche altra comunità che abitava in una diversa regione del mondo. Pur ignorando cosa fosse una navicella spaziale, non facevano fatica a immaginare i viaggi interstellari alla velocità della luce o il teletrasporto. L’unica cosa che non li convinceva era che Spock sembrava loro troppo alto, perché erano abituati a creature magiche più piccole, i Kontomblé.

Ed è proprio in Star Trek che alcune creative come Ytasha L. Womack collocano il seme di quello che a partire dagli anni Novanta sarebbe stato noto come afro-futurismo. Il personaggio della tenente Uhura, interpretata nelle serie originali da Nichelle Nichols, ha ispirato migliaia di persone, tra cui Martin Luther King. Fu proprio il leader del movimento afroamericano a convincere Nichols a non abbandonare la serie dopo la prima stagione con queste parole: “Per la prima volta in televisione ci vedono come siamo veramente, come persone che possono cantare, ballare e anche andare nello spazio.”

La presenza di personaggi afrodiscendenti nei ruoli principali di opere di fantascienza è uno degli elementi che caratterizzano il cinema afro-futurista, ma non è certo l’unico. Il termine afro-futurismo, coniato dal critico Mark Dery nel 1993, fa riferimento alla fiction speculativa che tratta questioni connesse alle preoccupazioni della comunità afroamericana nel contesto della cultura tecnologica del XX secolo. Si tratta di un primo approccio definitorio molto incentrato sulla diaspora africana, che si arricchirà grazie a diverse conversazioni, tra cui spiccano quelle generate a partire dalla mailing list LISTSERV creata da Alondra Nelson alla fine degli anni Novanta. Nell’afro-futurismo come categoria dovrebbe rientrare uno sguardo più generale sulle persone di ascendenza africana, relativamente a tematiche come l’alienazione, le questioni di genere o la storia, e la loro proiezione verso il futuro sotto forma di aspirazioni.

Il musicista jazz Sun Ra interpreta se stesso nel film ‘Space is the Place’ (1974)


Il vincolo tra passato e futuro

Attraverso la letteratura, la musica, l’arte o il cinema, l’afro-futurismo si è nutrito dei cambiamenti politici, sociali e culturali avvenuti dalla seconda metà del XX secolo e allo stesso tempo gli ha dato forma. È il caso di Space is the Place (1974), un’opera in cui il musicista jazz Sun Ra interpreta sé stesso come profeta dell’era spaziale appena arrivato da un viaggio cosmico. A ritmo di free jazz, proclama la fine dei tempi e cerca di salvare il suo popolo da un’imminente esplosione della Terra, portandolo via sulla sua navicella spaziale. L’enfasi sugli elementi propri del Black Power e la memoria condivisa di un passato comune legato al traffico di schiavi sull’Atlantico, così come l’uso di un’iconografia e un insieme di riferimenti eminentemente afrocentrici sono questioni ricorrenti che condivide con The Wiz (1978), la reinterpretazione in chiave afroamericana di Il mago di Oz (1939) che Sidney Lumet portò sul grande schermo. Con Diana Ross come protagonista e Michael Jackson come spaventapasseri, rappresenta un chiaro esempio di sovversione delle narrative occidentali.

Senza mai uscire dal quartiere di Harlem, in una New York ancora da gentrificare, in Fratello di un altro pianeta (1984) troviamo un protagonista alieno con l’aspetto di un afrodiscendente, la cui astronave si è schiantata sulla Terra. Mentre si dedica a riparare videogiochi o a guarire la gente con il semplice contatto fisico, vive sulla propria pelle il senso di alienazione legato all’esperienza migratoria negli Stati Uniti d’America. Un fenomeno sperimentato anche dalla protagonista di Sankofa (1993), Mona, modella statunitense disconnessa dalle sue radici africane che si trasferisce nel castello di Cape Coast, in Ghana, per realizzare un servizio fotografico. L’anziano Sankofa cerca di allontanare con i suoi tamburi i turisti che profanano un territorio sacro per la memoria dei rapiti dai mercanti di schiavi, mentre la protagonista va in trance e si ritrova in una piantagione del sud degli Stati Uniti nel XVIII secolo.

In Welcome II the Terrordome (1995), la regista Ngozi Onwurah esplora la diaspora africana da un punto di vista opposto: da un salto nel passato coloniale passiamo a un presente alternativo in cui la popolazione nera vive in schiavitù e confinata in un ghetto. A ritmo di hip hop e spoken word, il film ci presenta un futuro che sa di passato. Anche Lizzie Borden con Born in Flames (1983) si addentra in un contesto controfattuale, ma in modo radicalmente diverso. Il film è ambientato negli USA dieci anni dopo una rivoluzione socialista pacifica, ma il nuovo regime è incapace di sconfiggere la discriminazione di genere o quella basata sul colore della pelle. Per questo motivo, un gruppo femminista crea un esercito di donne che promuove l’autodifesa e l’azione diretta e che non combatte contro creature fatte di sangue e di carne ma contro il sistema che le strumentalizza, allo scopo di ottenere la piena libertà per tutti. Da Phoenix Ragazza Radio [sì, “ragazza” come in italiano, è il nome della radio nella versione originale del film, ndt] vengono inviati potenti messaggi intersezionali che potrebbero essere stati scritti da Kimberlé Crenshaw in persona.

Il culmine di questo ciclo di creatività basata sugli sguardi sul passato per dare un nuovo significato all’identità afrodiscendente si concretizza con The Last Angel of History (1996), un’ibridazione tra fiction speculativa e cinema documentario che ci invita a riflettere sulla temporalità e la tecnologia. Il film ci presenta il blues come una tecnologia nera segreta – sicuramente Angela Davis sarebbe d’accordo – e ci fa conoscere un personaggio, il ladro di dati, che curiosamente è più un hacker al servizio della liberazione che una grande corporazione dietro ad alcuni broker di informazioni. La tecnologia, come il razzismo, è una costruzione sociale. La missione del ladro di dati è quella di condurre una ricerca archeologica sul passato, per craccare il codice che gli darà accesso alle chiavi del futuro. Ladro che, oltre a ripercorrere l’opera di Sun Ra, di Lee Scratch Perry con la sua Black Ark e la Mothership Connection (1975) di George Clinton, che, a proposito, era un grande fan di Star Trek, resta affascinato dal techno di Detroit, reliquia di un passato industriale glorioso di cui non rimane altro che il suono. Un suono che attraverso i tamburi percorre la distanza tra il nuovo e il vecchio mondo, e che lo porta a realizzare l’ultima ricerca in Africa.

Un fotogramma del film ‘Supa Modo’


Il contributo del futurismo africano

Il panorama cinematografico africano non è più quella zona morta non compresa nel campo visivo della macchina da presa, né quella terribile “Negroland” che occupava gran parte delle terre sconosciute della mappa che il cartografo londinese Herman Moll disegnò nel 1727. Malgrado condivida alcuni spazi con l’afro-futurismo della diaspora, durante gli ultimi anni se ne è distanziato per rinforzare la sua identità. Nnedi Okorafor, l’autrice del testo che avrebbe ispirato l’ipnotico cortometraggio su tre streghe scienziate che mischiano magia e tecnologia, intitolato Hello, Rain (2018), opta per il concetto di futurismo africano come sottocategoria della fantascienza legata direttamente alla cultura, la storia e i punti di vista africani e che non mette l’occidente al centro. In questo modo cerca di allontanarsi dalla doppia coscienza teorizzata da W.E.B. Du Bois, secondo la quale le identità della diaspora si sarebbero viste anche loro attraverso gli occhi del potere che avrebbero sfidato. E in qualche modo, le cinematografie africane ci stanno riuscendo.

Il film d’avanguardia di Djibril Diop Mambéty intitolato Touki-Bouki (1973) ebbe un picco di popolarità nel 2018 perché avrebbe ispirato il manifesto del tour di Beyoncé e Jay-Z di quello stesso anno. A parte questo aneddoto, è interessante citare alcuni prodotti come Yeelen (1987) che rimangono impermeabili ai processi di transculturazione occidentale e che contribuiscono al consolidamento di un proprio immaginario. La scena del confronto faccia a faccia nella fiaba di La Nuit des Rois (2020) è un esempio lampante dell’influenza della pellicola di Souleymane Cissé. Ma “non tutte le nuvole producono pioggia” esclama uno degli anziani nella magnifica scena del rituale collettivo.

E ha ragione: in Supa Modo (2018), film uscito a Barcellona nel quadro del Festival Wallay di Cinema Africano, troviamo un racconto delizioso di una bambina malata che sogna di essere una supereroina e tutto il villaggio si lancerà nelle riprese di un film d’azione futurista ispirato ai supereroi occidentali e asiatici. Inoltre vi troviamo la figura del video joker, una specie di griot o guardiano della tradizione orale moderna. Non è un caso, quindi, che l’intelligenza artificiale creata da Shuri in Black Panther (2018) si chiami proprio Griot.

Con Crumbs (2015), il madrileno residente in Etiopia Miguel Llansó costruisce un’epopea atemporale dalla vocazione universale su un protagonista per nulla normativo che ci invita a riflettere sulle relazioni, il trascorrere del tempo e il disorientamento prodotto dal processo di globalizzazione. In un’Etiopia post apocalittica e con una narrativa segnata dal surrealismo, gli oggetti fisici custodiscono la memoria e i paesaggi abbandonati rappresentano futuri possibili che non sono mai diventati realtà.

L’emersione del cinema africano – o dei cinema africani, perché come diceva Ryszard Kapuscinski, “l’Africa non esiste” – negli ultimi anni è ormai evidente, e lo dimostra la sua presenza nell’edizione di quest’anno del Festival Internazionale del Cinema Fantastico di Catalogna a Sitges. Il successo del thriller con elementi fantastici Saloum (2021) e il film horror su sfondo razzista e classista Good Madam (Mlungu Wam, 2021) nella sezione Nuove Visioni, esemplificano la ricchezza e la diversità di cinematografie che rompono gli schemi e portano una ventata di freschezza sul panorama globale. Il direttore artistico del festival, Ángel Sala, sottolinea che “il fantastico fa parte del quotidiano nell’Africa attuale e non proviene solo dal folklore o dalla leggenda popolare più o meno esotica, ma da una combinazione estrema di questi elementi con l’assimilazione delle nuove tecnologie, la ricchezza creativa della strada e una climatologia instabile e convulsa”. Per questo motivo ha ripescato Neptune Frost (2021) per la sezione Focus: la storia della connessione cosmica tra il minatore di coltan Matalusa e la hacker intersessuale Neptune per distruggere il totalitarismo di un regime oligarchico e patriarcale si sviluppa in un modo assolutamente affascinante. Si tratta di un film che rappresenta alla perfezione la new wave del cinema futurista africano senza complessi ma dotato di memoria, e che non lascerà nessuno indifferente.


Pol Julià Pascual
Traduzione di Alice Croce Ortega
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