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Nei pochi mesi da che lo conosco, Carlo Papalini, “Quercophilus” per gli amici, mi ha insegnato molto. Dal piacere di camminare in un bosco con occhi e orecchie aperte, alla curiosità verso ghiande e semi, dall’impegno sul territorio per controllare e custodire, all’attenzione verso i grandi discorsi green, dietro i quali spesso si nascondono interessi industriali rapaci.
A un certo punto, quindi, mi è nata spontanea l’idea di intervistarlo, per condividere con più persone un punto di vista fuori dagli schemi, uno sguardo che parte a livello della terra, quella più fertile e viva, in grado di nutrire e sostenere tanto gli alberi quanto i ragionamenti. Buona lettura!

Giulia Abbate


Giulia: Ciao, Carlo, grazie per la tua disponibilità e benvenuto su Solarpunk Italia. Con questo portale e la nostra attività cerchiamo di fare ecologismo: sia tramite la fantascienza, sia intervistando attiviste e attivisti, come te, per divulgare ciò che già fanno. Nel nostro essere utopiste con la letteratura, riconosciamo gli utopisti che non scrivono e invece fanno. Tu sei uno di loro.

Dal profilo di Carlo Papalini: “Nel mondo dei contadini non si entra senza una chiave di magía.”

Carlo:  Cerco di dare l’esempio attraverso il dialogo. Nell’arco di tanti anni, ritengo d’aver convinto tante persone ad avvicinarsi a un ecologismo vero e profondo. Dico questo perché penso che ora ci sia un ecologismo di facciata, o peggio, strumentale, usato da un sistema di potere che riesce a trasformare la scienza in mera convenienza industriale. La scienza oggi è anche un’arma nelle mani di chi detiene il potere: basti dire che tutti gli affari che l’industria vuole fare ai danni della natura vengono avallati da scienziati.

Da parte mia, cerco sempre di approfondire, e di non farlo da solo. Una cosa che ho cercato di fare in questi anni è unire e trovare coesione. Ci sono tante persone che difendono la natura, attraverso ricerche scientifiche, associazioni, iniziative: però, in generale, è un mondo diviso e spezzettato. Allora, con tanta pazienza, in questo ultimo decennio ho cercato di conoscere queste persone, di farmi conoscere a mia volta, e di connetterle tra di loro. Uno dei modi che ho per farlo è invitare le persone nel mio gruppo facebook “Liberi pensatori a difesa della natura”, e anche in una chat tematica. La mia speranza è che si lasci da parte la necessità di sentirsi primi a casa propria – la vecchia storia secondo cui è meglio essere primi in un paese che secondi a Roma  – e si lavori insieme ogni volta che si può.

Questo si sta realizzando, a livello di iniziative e di attivismo in cui ci si aiuta; e con la messa in comune di saperi, studi scientifici, ricerca e divulgazione. A volte ci si reca insieme a convegni specialistici, poi li si riporta a chi non c’è stato, e così via. Deve crearsi una rete: tra esseri umani che auspicano un cambiamento nella società, oltre che tra noi umani e le altre forme di vita. Questo è stato il primo compito che mi sono prefisso in questi anni.

Giulia: Un altro tuo importante contributo è stato quello di salvare un bosco. Letteralmente.

Carlo: Sì: d’accordo con mia moglie Laura, quando abbiamo avuto disponibilità finanziaria, invece di andare in vacanza o prenderci la macchina nuova abbiamo trovato un bosco, vicino a dove viviamo, e lo abbiamo salvato dai tagli, per dargli la possibilità di continuare a evolversi naturalmente, per proteggere gli animali che ci vivono, e anche per creare dei posti dove la natura resti integra. Ora questo bosco è vissuto anche dalla gente, diversi gruppi ci si recano in gita, vivono lì una bella dimensione anche comunitaria. Un alto livello di naturalità permette alle persone, anche a quelle che non studiano le problematiche ecologiche, di capire: ci devono passeggiare. E stare in un bosco vetusto non è la stessa cosa che passare in un bosco tagliato.

Giulia: Come mai?

Carlo: I tagli semplificano la biologia del bosco, diventano quasi una mutilazione, non solo paesaggistica. Faccio un esempio: i rapaci hanno bisogno di alberi alti e vetusti per nidificare. Se gli alberi non ci sono più, queste specie vanno in estinzione. Ma la catena alimentare e della vita non va interrotta, perché è molto complessa e comprende tutte le specie viventi: ci siamo anche noi, interromperla è un rischio anche per l’essere umano. La catena alimentare vive negli ambienti sani, e ha bisogno di tempo, stabilità, ecologia. Bisogna quindi lasciare sempre delle zone ad alta naturalità, che bilancino quelle urbane e coltivate: andrebbe studiato un livello di compensazione, ovvero quanta terra lasciare a natura e quanta utilizzare per i nostri bisogni. Sai oggi che percentuale hanno in Italia le aree veramente protette?

Giulia: Non lo so.

Carlo: Neanche il 2%. Un ecologismo profondo dovrebbe ambire al dieci, al venti, al trenta: e non perché ci piace fare gli ecologisti ganzi, ma perché è necessario alla nostra sopravvivenza, a una sopravvivenza sana, piena, dignitosa, felice!

Ma questi concetti a chi vuoi interessino? Siamo immersi in quella che io chiamo la civiltà dell’oro, che ci sta facendo precipitare, e che per fare affari si compra tutto e tutti, con pubblicità e proclami roboanti. Tolti quelli, quando si inizia ad approfondire, capisci che spesso non torna nulla, secondo i veri principi della biologia, dell’energia, della medicina, dell’economia, e così via.

Giulia: Mi fai un esempio?

Carlo: Io ho studiato economia, e da lì ho cominciato a chiedermi: i bilanci come vengono fatti? Se un’azione umana provoca un costo, va messo sul bilancio. Ma questo non succede. E la collettività accusa pesanti problemi ecologici, a causa di azioni economiche nelle quali non vengono considerati i danni ambientali.

Quando, per esempio, si taglia un bosco, si creano numerose esternalità negative che nei bilanci non vengono considerate. Abbiamo le voci in attivo di chi fa profitti con la legna. Ma tutti sappiamo che l’albero e il bosco sono ecosistemi che filtrano l’aria e l’acqua, che regolano il clima, contengono e proteggono la biodiversità… e a fronte di poche migliaia d’euro di profitto per il taglio, nei bilanci non risultano centinaia di migliaia di euro di danni. Senza parlare del fatto che i profitti sono per pochi privati, mentre i costi sono per la collettività. 

Inoltre, l’opinione pubblica si lascia influenzare da narrative “ecologiche” di una certa scienza che sostiene l’industria, da cui è finanziata e inquadrata sin dalle università. Un esempio concreto? In questi ultimi tempi, si cerca di far passare il concetto che “la natura non si può abbandonare” a sé stessa. La cosa è presentata come se un bosco fosse un povero vecchietto, o un malato bisognoso, che necessiti di cure costanti. Dietro il concetto di “non abbandono”, in realtà, si nasconde un proposito di sfruttamento. Vogliono sfruttare il più possibile i boschi, ad esempio, e continuare a ricavarne tutta la legna possibile, per usi massivi.

Un tempo l’uso principale della legna era quello termico: e a livello locale non ci sarebbe nulla da dire, stufe e stufette ci sono sempre state, e le persone che vogliono scaldarsi con la legna tutto sommato hanno diritto ancora a farlo. Oggi però c’è l’uso energetico. Lo hanno introdotto con il concetto delle “energie rinnovabili”, inserendo in questa definizione anche la legna, suggerendo che in fondo bruciare legna in quantità industriali non è un problema… tanto gli alberi ricrescono! E oggi chi brucia legna per produrre energia viene premiato.

Giulia: Questo non lo sapevo.

Carlo: Le energie rinnovabili delle biomasse legnose sono equiparate al fotovoltaico e all’eolico. Cioè: se tu fai una centrale a biomassa, e ti metti a bruciare la legna per fare la corrente, ti danno gli incentivi: è questo il vero business, gli incentivi sono il vero profitto di queste centrali.

E qui si potrebbero aprire discorsi anche più complessi, ci sarebbe da indagare a fondo. Nel nostro gruppo, ci sono ingegneri che ci hanno spiegato il funzionamento della rete energetica. Alcune regioni, come la nostra, ad esempio, l’Umbria e l’Alto Lazio, sono già fornite da decenni di energia elettrica, grazie a centrali a carbone che vanno tutto il giorno e non sono “modulabili”, non le si può spegnere. Se a esse si aggiungono nuove centrali a biomasse, senza una sostituzione, solo perché bisogna “aumentare la percentuale di rinnovabile”, questo è un beneficio vero, per l’ambiente? Considerando anche che questo tipo di energia non è trasportabile facilmente, non si può produrre per poi trasferirla ad altre zone, va usata in loco. E considerando anche l’enorme dispersione di energia termica di una centrale a biomassa legnosa: l’energia della legna trasformata in energia elettrica è sì e no il 30% del potenziale energetico totale, e mi chiedo che senso ha bruciare la legna solo per illuminare. In una casa, se hai bisogno di un po’ di luce in più, accendi il camino? Chi lo farebbe?  E invece a livello nazionale si fa. [1] 

Giulia: Ecco che da una dimensione piccola e locale, come quella di un bosco, ci si connette a problemi enormi che riguardano la speculazione, la percezione delle rinnovabili, e i legami inestricabili, come dicevi tu all’inizio, tra i grandi numeri dell’industria, la ricerca scientifica, la comunicazione.

Carlo: Questo problema dei legami, della dipendenza verso il potere e gli interessi privati, è una questione che vediamo in più campi: nell’energia, nell’ecologia, nella sanità, nella politica… Dobbiamo chiederci: che cos’è la scienza? Chi può definirsi scienziato, e con che motivazione può imporre decisioni alla politica? È affidabile lo scienziato che ha conflitti di interessi?

La collettività deve ricorrere a scienziati che non abbiano conflitti di interessi. E si dovrebbero fare leggi contro le attività di lobbying:  si è ampiamente capito che chi è al potere viene circondato da portatori di interessi che cercheranno di influenzare le sue decisioni per favorire i propri affari, e non si capisce qual è il limite tra il legale e l’illegale, tra l’influenza e la corruzione. Di recente, nel caso della corruzione per i mondiali del Qatar abbiamo visto i sacchi di soldi, in senso letterale. Ma il sacco di soldi è la cosa più banale, più volgare. L’attività di lobbying  è molto più complessa e difficile da individuare.

L’ecologismo vero secondo me è quello che scende a fondo nei problemi e cerca la sintesi, il senso di quello che succede e di quello che si vuole ottenere. Con un principio che per me è prioritario: gli esseri umani non sono più bravi della natura.

Possiamo cercare di capirla e interpretarla. Possiamo munirci di strumenti tecnici che ci aiutino. Ma senza mai perdere di vista il fatto che l’ecosistema, così come l’organismo umano, ha dei meccanismi che in uno stato di salute ed equilibrio funzionano benissimo, hanno un loro senso. Non li si può ignorare, o fingere che funzionino peggio di una tecnologia più efficiente o “migliore”. Non si può subito pensare di essere superiori, questo dominio sulla natura è fallace.

Giulia: Questa parola mi colpisce: dominio. L’essere umano, sentendosi migliore, vuole agire nei confronti della natura con una logica di dominio. Per come la vedo io, la logica di dominio non si applica in un solo settore ma struttura la coscienza e la società, è un modo di ragionare totale, pervasivo. Gli abusi non sono effetti collaterali, sono intrinseci a questo sistema, ne sono le basi. Quindi è molto difficile liberarsene solo in una parte, mantenendo però il sistema inalterato, non credi?

Carlo: Il mito del dominio è un concetto portante. L’uomo vuole dominare chi ritiene inferiore, in qualche modo. E quindi la donna subisce la presunta inferiorità fisica, il povero subisce la mancanza di disponibilità, la natura subisce la mancanza di attività concrete di difesa. Come hai scritto tu nel tuo racconto [2], le piante ora subiscono l’uomo, però non è escluso che un giorno si inventino qualcosa per fermarci. Quel tuo passo mi ha colpito molto. Il dominio dell’uomo è collegato a tanti problemi sociali, e questo mito del dominio si ripercuote su tutto, anche se esistono minoranze che hanno capito che sulla strada del dominio si finisce male, e lottano per l’uguaglianza e per la pace.

Perché noi siamo legati al pianeta, non possiamo pensare di andare avanti con questi atteggiamenti e avere un futuro certo. I segnali ci sono tutti: l’inquinamento è a livelli pazzeschi, ci sono isole di plastica grandi come nazioni, le acque dei fiumi sono tutte inquinate, e l’aria… l’aria! Sono in contatto con i medici della ISDE, e mi dicono che i morti per problemi polmonari in Italia sono decine di migliaia. Ci sono un’infinità di schifezze che si respirano nell’aria.

Allora, anche qui, torniamo al dicorso degli alberi. Un albero cattura le polveri sottili, è un depuratore, che ti protegge dall’aria inquinata… e però lo tagli perché le foglie sporcano, oppure perché qualche radice ha alzato l’asfalto.  Follia.

Giulia: Questo degli alberi è un aspetto a volte confuso, A Milano c’è stata un’iniziativa, che si chiamava “ForestaMi”, in cui hanno piantato migliaia di alberi, con grandi proclami. Ma con la siccità di quest’estate tantissimi di questi alberi li abbiamo visti morire di sete: nessuno andava a vedere come stavano. C’è stato un movimento spontaneo di persone che giravano con le taniche e annaffiavano a mano: “ForestaMi e poi dimenticaMi”. Penso che in questo caso il Comune sia partito da una logica non ecosistemica né rispettosa. Piantiamone mille, diecimila, facciamo numero! Una condotta interventista di grana grossa.

Carlo: Piantare gli alberi: è curioso come viene affrontato questo tema. La biologia, la vera biologia, mostra che qualunque pianta deve nascere da un seme, e il seme deve restare nella terra, perché è così che è programmato. Il seme cade nella terra e trova lì le condizioni per vivere. E se ci riesce, se capisce che quel posto può andar bene, attecchisce; e non ha più nessun bisogno dell’aiuto dell’uomo. Non c’è bisogno di innaffiare niente. La riforestazione da semi potrebbe avvenire anche in città e non costa nulla, praticamente. Tu sei un cittadino, fai una passeggiata, raccogli ghiande di quercia, fai una buchetta e metti il seme: fai la stessa opera che farebbe la natura, attraverso vari sistemi come il vento, l’aria, l’acqua, e anche attraverso animali come arvicole, topi, ghiandaie… Dunque, l’uomo che non vivesse in questo suo mito del dominio dovrebbe imitare la natura. Invece che fanno? Spendono milioni di euro per mettere i semi in vasetti dal vivaio. E sono anche lì movimenti: porta qua, porta là il vasetto, che è pure di plastica, e dentro il vasetto bisogna annaffiare… una follia generale. Com’è che si dice ora? Greenwashing. Si vuole apparire ecologisti piantando alberi. Ma è una fesseria, perdona la parola. Una fesseria istituzionalizzata. Io ho provato tante volte a discutere con sindaci e assessori, chiedendo loro di mettere i semi e poi vedere che succede. Perché ho fatto centinaia di esperimenti con i semi, in particolare con le ghiande, ormai ho capito come funziona.

Se tu interri al suolo una ghianda, quella farà scendere la propria radice fino a 40-50 cm sottoterra, il primo anno. Perché lo fa? Perché prima di nascere come albero, cerca le sostanze nutritive e l’umidità che serviranno: la ghianda “ragiona” così. Invece noi esseri umani la mettiamo in un vasetto,  al vivaio, e la lasciamo due, tre anni nel vasetto. Però, le piante in vaso capiscono che non hanno possibilità di sviluppo, e spengono i geni della crescita. È un meccanismo acclarato, biologico. La pianta constata che non ha speranza di crescere, allora spegne tutto e aspetta. E anche se poi la mettiamo nella terra, passano comunque quattro o cinque anni, prima che la pianta capisca di poter crescere di nuovo. Dunque dov’è la convenienza di tutto questo?  

Giulia: Mi stai dicendo che la cosa che sembra meno rispondente ai tempi di una città, ovvero quella di seminare, in realtà è più efficace, più efficiente, più veloce rispetto al portare l’albero già pronto dal vaso?

Carlo: I primi anni, sembrerà che l’albero in vaso cresca di più. Se c’è un vaso con molta terra, il fusto cresce: non potendo svilupparsi sotto, si sviluppa sopra. Ma è un processo invertito rispetto alla crescita fisiologica: nella terra, la pianta prima sviluppa l’apparato radicale e dopo crescerà con il fusto. La crescita in vaso appare vantaggiosa, ma chiunque abbia nozioni di biologia capisce che tutto il tempo che guadagni in altezza lo perdi in profondità. Inoltre, la pianta interrata dal vaso ha le radici arrotondate, non ricava sufficienti sostanze nutritive e umidità, quindi ha bisogno di un aiuto umano, la devi innaffiare, la devi seguire. Quindi, in pratica: da una parte c’è una crescita che costa tanti sacrifici, mentre dall’altra c’è un processo naturale che non costa nulla.  

Vedo anche un’altra fesseria: questi grandi palazzi, pieni di piante nelle fioriere. La grande invenzione sarebbe di mettere le piante nei vasi del palazzo e fare una parete vegetale? Ma le piante, in queste belle fioriere, consumeranno tutte le sostanze nutritive: va cambiata la terra, va cambiata l’acqua. Quando magari c’è un bell’albero in strada, che se l’è cavata da solo…  quello lo tagliano perché devono, che so, mettere un altro tipo di lampione. In che società viviamo?

In una società da disperazione, ormai, perché le cose che stiamo dicendo sono riconosciute da scienziati e persone sagge, che però ti rispondono che è una lotta impari e senza fine. Perché la nostra civiltà deve per forza distruggere, costruire, distruggere… in un ciclo infinito.  Lasciare tutto tranquillo, senza distruggere, senza costruire di nuovo, non rende. Non mette in moto questa nostra economia lineare, che sembra bella, perché tutti lavorano… però che cos’è l’economia lineare?

L’economia lineare, in un pianeta con energie limitate, significa che prima o poi finiscono le risorse. Un buon padre di famiglia, nella sua casa, nel suo orto, cerca di mantenere le cose per lasciarle ai propri figli ai nipoti. Quello che si fa invece a livello pubblico è il contrario: consumiamo, sfasciamo, e chi verrà dopo… s’arrangi. Ognuno pensa a godere nell’immediato, producendo consumi osceni… penso ai consumi di carne, ad esempio. Questo maltrattamento continuo di poveri animali. Questi allevamenti intensivi… veramente osceni. Ne hai mai visto uno, all’interno? Io li ho girati, gli allevamenti, per un periodo: ti vergogni di essere un essere umano. Che cosa stiamo facendo? Stiamo privando miliardi di animali di un minimo di vita, non è giusto, questo. Si può dire che conviene, ma non è giusto!

Io auspico una società dove si si cerchi la giustizia. La giustizia per i deboli, per quelli che non si possono difendere: sono loro ai quali dobbiamo giustizia. Che cos’è una società senza giustizia? Può esistere, una società senza giustizia?

Giulia: Bè, per riprendere una frase che hai citato qualche giorno fa: non c’è pace senza giustizia. Una società senza giustizia è una società dove ci si basa sulla sopraffazione. Torno al ragionamento di prima: la sofferenza dei più deboli non è un semplice effetto collaterale.

Carlo: Che non c’è pace senza giustizia lo dovrebbero capire tutti, perché poi, dopo, le altre forme di vita non si sa come potranno reagire. Non si sa. Quello che scrivi tu nel tuo racconto è fantascienza, ma nemmeno tanto. Le piante un giorno potrebbero emettere davvero delle tossine. E c’è anche il mondo dei batteri, dei virus, che mi sembra abbastanza alterato contro di noi.

Il rispetto dovrebbe essere un altro concetto istituzionalizzato: il rispetto verso tutte le forme di vita. Va bene la sopravvivenza, vanno bene le necessità biologiche, ma il rispetto dovrebbe rimanere la luce del comportamento umano. Questo lo insegnavano anche i nativi d’America. Cacciavano e uccidevano gli animali, poi officiavano cerimonie in cui chiedevano anche perdono. Non distruggevano per motivi egoistici. Nella natura questi equilibri ci sono: si può sopravvivere, ma ci vuole rispetto.

Giulia: A questo punto allora ti vorrei chiedere un esercizio solarpunk: per un mondo migliore, da adesso in poi, che cosa bisogna fare?

Carlo: Serve tempo… si deve essenzialmente ragionare su un tipo diverso di educazione e di istruzione per i giovani, a una nuova classe di saggi maestri che non siano così legati al potere. Bisogna studiare e insegnare l’economia circolare, che comprende atteggiamenti virtuosi che in Italia possono attecchire. Siamo stati un Paese che ha raccolto l’eredità della filosofia greca, che dato alla luce il diritto, un paese grande esempio per l’umanità, dovremmo tornare a esserlo: riconvertire le economie lineari in economia circolare, dove il risparmio, il riuso e riciclo diventino colonne portanti del nostro vivere. Non si deve rinunciare a tutto, non mi auguro certo il ritorno alla povertà, anzi, la povertà arriverà se ci si continua a comportare così.

Il futuro è in una diversa istruzione, e in una lotta politica contro i problemi già enunciati, e per una diversa scienza. Per me questo è un discorso importante. Non so come si potrebbe fare, ma non può funzionare come è ora: un politico trova quei due o tre scienziati che gli danno ragione e impone di fare quello che dice lui. Quello che ho visto negli ultimi anni, parlo anche della pandemia, è che siamo ritornati ai re sacerdoti che minacciavano: comportatevi bene, se no non facciamo più piovere. Adesso ci dicono: se non fate così morirete tutti. Che differenza c’è?

Possono esistere società diverse. Ma dovremmo lasciar perdere la strada dell’oro, la ricerca affannosa dell’oro, sempre più oro, sempre più oro… è un dramma, un dramma che paghiamo già noi, e sicuramente pagheranno le generazioni future.

Non è che tocca inventarsi niente. I valori  della nostra civiltà erano profondi e molti di essi sono rimasti vivi fino a pochi anni fa. Penso alla mia formazione politica con il Partito Radicale, che molti principi, come quelli del diritto, li ha difesi fino a poco tempo fa, salvo poi ignorare tutti gli abusi e le violazioni formali e pratiche di questi ultimi tre anni. Per questo sono stato felice di raggiungere Davide Tutino, che poi ci ha fatti conoscere. Unire le forze da più ambienti è importante, perché anche portatori di interessi e lobby sono uniti e ben organizzati. La civiltà dell’oro compra tutto.  

Giulia: Mi piace questa tua espressione: “la civiltà dell’oro”. Quando io dico “il capitalismo” la gente mi sbuffa davanti. Roba vecchia, dicono, basta. Invece “la civiltà dell’oro” è molto efficace.  

Carlo: Esiste anche la civiltà dei valori. Vogliamo fare una compensazione? L’oro non è un valore, la contrapposizione oro – valori va rimessa in campo con forza. Ma per la civiltà dei valori, quali sono i riferimenti, le proposte esistenti?  

Il sistema di potere ha dalla sua dei meccanismi forti: pensa anche al potere dell’informazione e al suo livello di compromissione. Anche gli spazi dei giovani sono occupati da personaggi della civiltà dell’oro, influencer a vario titolo, usati per diffondere messaggi precisi. Quelli come me praticamente non li invita nessuno, perché i conflitti di interesse io li denuncio, li ricostruisco, e questo terrorizza.

Giulia: La prima forma di violenza è la menzogna. Siamo anche per questo una civiltà violenta. Spero che l’unione per la quale lavori riesca a creare un nuovo movimento, anche politicamente vario, ma fatto di persone attente e meno sedotte dall’oro.

Carlo: Per concludere, mi piacerebbe anche dire questo: un rinascimento della civiltà dei valori potrebbe essere aiutato dalle piante. Numerosi studi dimostrano l’influenza delle piante sulla mente umana, e sappiamo già da secoli che ci sono piante che possono aiutare uno sviluppo della coscienza umana. Solo che, diciamolo chiaramente, sono classificate tra le droghe, quindi osteggiate – a torto o a ragione, non lo so. Comunque, le piante in qualche modo mandano segnali. Anche questa è un’unione che, legalità permettendo, va esplorata.

Giulia: Il che ci ricollega al discorso delle culture sciamaniche. Il solarpunk stesso, nato in Sudamerica, ha una relazione con le culture e le popolazioni amazzoniche, considerandole le proprie radici. Sappiamo che nel momento in cui lo sciamano prende l’ayahuasca accede a una dimensione di sapienza, non è che va solo in sballo. Viene edotto dalle piante, dalla dimensione psichedelica, e ritorna con conoscenze vere.

Carlo: E poiché il solarpunk chiama in campo questa solarità… il sole: anche il sole ci parla e manda messaggi di crescita attraverso le piante. L’utilizzo delle piante mette in contatto gli esseri umani anche con il sole. Con la fotosintesi, il sole trasmette energia, che finisce nella materia: nel legno, ad esempio, che quando brucia sprigiona di nuovo quell’energia originaria. Probabilmente anche  le persone, quando ricevono il sole, mettono in moto dei processi di trasformazione e conoscenza che possono essere aiutati dalle piante.

È un campo da studiare, in un’ottica di aiuto e di evoluzione: consiglio di seguire il professor Giorgio Samorini, oppure lo psichiatra Piero Cipriano di Roma, che stanno portando avanti studi rigorosi e scientifici, in modo da non dare adito alle solite critiche relative all’uso di droghe.

Perché qui si fa presto a scadere, purtroppo l’umanità fa un uso sbagliato di tante sostanze: un uso ludico, legato al divertimento, al godimento fisico. Il vero uso sarebbe quello di ampliare la coscienza, di viaggiare verso l’evoluzione, perché l’evoluzione è legata al tessere relazioni. Anche noi, dunque, dobbiamo tessere relazioni con gli altri mondi, se non vogliamo rimanere ancorati a questa epoca dei bisogni biologici e della lotta per la sopravvivenza. Un nuovo rinascimento degli umani potrà avvenire nel momento in cui troveremo contatti con le altre forme di vita. E i mezzi ci sono. Mi rendo conto che è un discorso spinoso, però voglio comunque metterlo in campo.

Giulia: Hai fatto benissimo a parlarne. Leggendo scrittori e scrittrici sudamericane, che ragionano sulle loro radici native, mi chiedevo: le nostre radici sciamaniche, dal punto di vista locale, esistono? Riusciamo a recuperarle? Dove sono? Forse nella stregoneria europea, residuo di paganesimo rurale e dei boschi, permangono tracce di antiche pratiche sciamaniche, aiutate da sostanze psicotrope locali.

Carlo: Una di esse è l’Amanità Muscaria, un fungo. Nelle regioni siberiane è ancora assunta. Sul sito web di Giorgio Samorini ci sono testi consultabili gratuitamente in merito. E in Europa ci sono molte altre piante. Diciamo però che il potere costituito non auspica questi percorsi: l’ignoranza è uno dei requisiti per mantenere il comando, quindi queste forme di di sviluppo vengono combattute con forza. Se ne può parlare a livello di ricerca scientifica, oppure… nella fantascienza. Si possono dire queste cose, in un romanzo, no? Stiamo parlando di fantascienza, quindi non ci rompete le scatole.

Giulia: Giusto, Carlo. Grazie infinite!


Note

[1] Riguardo a questo discorso, Carlo ha ritenuto opportuno spendere qualche parola in più, sollecitato da nostre domande, per chiarire i termini della questione. Eccole:

La corretta gestione delle risorse forestali è una delle più grandi sfide attuali. I tipi di governo del bosco, e la selvicoltura in generale, hanno svariate ripercussioni sulla collettività: sebbene l’argomento sia molto complesso, la gestione resta di competenza di professionisti preparati esclusivamente sugli aspetti estrattivi. Ma solo coinvolgendo varie tipologie di professionisti sarà possibile trovare soluzioni che, nel contemperare le diverse necessità, potranno anche garantire il benessere della collettività.

È necessario quindi coinvolgere esperti di energia, biologi della conservazione, economisti ambientali, esperti in materie sanitarie, medici specialisti, geologi, climatologi… ma anche storici, filosofi di diritto naturale e positivo, in grado di fornire una chiave di lettura anche legata all’umanesimo.

Gli esseri viventi hanno bisogno del carbonio come fonte energetica. Anche i microrganismi. Se in un terreno non c’è carbonio, i microrganismi muoiono e il terreno diventa sterile. Il processo chimico di trasformazione produce CO2 (come avviene per noi), e questa energia serve per produrre sostanze nutritive utili per le piante. Quando il legno brucia, si forma analogamente CO2, ma non si formano le sostanze nutritive che i microrganismi sono in grado di produrre. Inoltre, il processo di combustione è veloce, mentre l’altro processo è lento. Nessun essere vivente brucia tutto in un sol colpo. Gli escrementi contengono abbastanza CO2 per altri organismi, a sua volta questi ne lasciano dell’altro e così via. È una lunga catena. Il recupero termico è l’anello debole di tutto l’imbroglio, per questo i sostenitori delle biomasse parlano tanto di “cogenerazione”. Se effettivamente il calore venisse recuperato tutto, il problema non sussisterebbe perché diminuirebbe l’utilizzo della legna per il riscaldamento. Ma se non si recupera o se ne recupera molto poco, ecco che non diminuisce la quantità di legna utilizzata per scaldarsi. C’è quindi un di più. Delle 4.000.000 tonnellate di legna bruciate solo 800.000 t diventano elettricità. Tutti danno per scontato che si recupera il calore dalle 3.200.000 (facendo quindi risparmiare la legna per uso termico) ma non è così. Agli attuali impianti a biomassa per la produzione di energia elettrica servono circa 4.000.000 t di legna e di queste solo 800.000 t vanno a buon fine perché il recupero termico è scarso o inadeguato. Poiché le rese elettriche sono basse, o su 100 di potenziale energetico solo il 20-23% può essere convertito in energia elettrica (il resto si disperde come calore), dicono che questo calore lo recuperano. Però tali centrali funzionano notte e giorno ed anche in estate e quindi è impossibile recuperare tutto. Tra l’altro, in estate, le centrali modificano anche il microclima locale perché disperdono tutto quel calore nelle vicinanze. L’uso termico è decisamente prevalente rispetto a quello elettrico. Tuttavia l’uso elettrico è una follia energetica perché la resa è molto bassa, dato che appunto solo il 20-23% per potere calorifico della legna può essere trasformato in elettricità e il resto va sprecato. L’energia elettrica prodotta lorda che si ottiene dalle oltre 800.000 tonnellate di legna è pari al 3,7% per fabbisogno elettrico nazionale. E questo senza contare i costi energetici legati a: trasporto della legna, taglio degli alberi con motoseghe, triturazione e lo smaltimento delle ceneri.

[2] “Il libro di Flora”, in “Assalto al sole”, a c. Franco Ricciardiello, Delos Digital, 2020

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