Silvia Treves
Noi umani siamo creature visive e sottovalutiamo ciò che non vediamo. Quindi, per affrontare la crisi climatica pensiamo a soluzioni validissime come sostituire ai combustibili fossili le fonti rinnovabili, eliminare gli allevamenti intensivi, ripristinare le foreste, ridurre la CO2 nell’atmosfera e, a livello individuale, utilizzare le biciclette o andare a piedi.
Ma faremmo bene a guardare anche nel suolo, perché è lì che vivono dei vecchissimi amici delle foreste, e quindi nostri.
I funghi sono stati riconosciuti come regno a sé, distinto dalle piante, solo nel 1969. Ancora oggi essi suscitano molto meno interesse di altri regni e classi. Non possono competere con creature carismatiche come tigri, serpenti, uccelli, insetti, grandi molluschi o con gli alberi. I funghi sono creature da cuochi, da cercatori disposti a camminare per ore, da tassonomisti.
Questo è un bell’abbaglio, le piante potrebbero testimoniarlo. La loro collaborazione con i funghi dura da 400 milioni di anni: se non la notiamo è solo perché non avviene alla luce del sole.
Che cosa fanno, là sotto, piante e funghi?
Là sotto c’è la rizosfera, la zona che circonda l’apparato radicale delle piante, dove si incontrano radici, funghi e batteri. La porzione di suolo superficiale che occupa sta fra l’1 e il 3% del suolo terrestre totale.
Tra funghi, piante e batteri prosegue da centinaia di milioni di anni un commercio nel quale gli alberi forniscono ai funghi zuccheri e, in cambio, ne ricevono sostanze nutritive come azoto, fosforo, calcio, solfati e acqua; Anche i batteri si nutrono di zuccheri e ripagano producendo ormoni della crescita e altre sostanze che aiutano la pianta a crescere. La moneta di scambio fondamentale è il carbonio: le piante assorbono CO₂ dall’atmosfera attraverso la fotosintesi e altri organismi la reimmettono in atmosfera, altrimenti alle piante non ne resterebbe più. Parte di questo carbonio entra poi nelle reti dei funghi micorrizici (micorriza deriva dal greco: mycos – fungo – e rhiza – radice).
La maggior parte dei funghi produce lunghi filamenti, conosciuti come micelio, che costituiscono tra il 30% e il 50% della massa vivente dei suoli, una rete sotterranea chiamata anche wood wide web [rete sotterranea del bosco]. Se potessimo misurare la lunghezza globale del micelio nella rizosfera troveremmo un valore di oltre 450 quadrilioni di km: circa la metà della larghezza della nostra galassia. Una meraviglia a cui gli umani destinano circa lo 0,2% delle priorità di conservazione globale.
Secondo i ricercatori, le piante del pianeta stanno trasferendo a questa rete sotterranea 3,58 miliardi di tonnellate di carbonio l’anno, che equivalgono a 13,12 miliardi di tonnellate di CO₂, più di un terzo dei 36,3 miliardi di tonnellate di CO₂ emesse ogni anno a livello mondiale dai combustibili fossili.
Le micorrize trattengono il carbonio nel terreno formando un deposito molto stabile e resistente alla decomposizione, e quando muoiono, lasciano una necromassa ricca di carbonio che può restare intrappolata nel terreno anche per un decennio.
Ma non tutti gli alberi possono permettersi le micorrize: secondo alcuni studi gli alberi che vivono in città conducono una economia di sussistenza e muoiono giovani, perché non hanno funghi con cui fare scambi.
Sappiamo ancora troppo poco sull’argomento: per esempio, anche se, a causa delle attività umane, la CO2 atmosferica continua ad aumentare, questo non significa che le micorrize possano assorbirne all’infinito. Come spiega un interessante podcast di Scientific American, esiste un problema “inflattivo”: i funghi potrebbero trovarsi in difficoltà a commerciare con piante che assorbono una crescente quantità di carbonio. Se così fosse, l’economia di scambio vegetale potrebbe adattarsi oppure crollare. Ad esempio, gli alberi delle foreste, come quelli di città, potrebbero iniziare a crescere più lentamente, a riprodursi meno spesso e morire giovani.
Una brutta prospettiva anche per i funghi, che così otterrebbero meno zuccheri dalle piante.
La prospettiva non è buona nemmeno per noi umani, se continuiamo a immettere altra CO2 in atmosfera; in questo caso il 30% di carbonio che la terra può assorbire calerebbe.
Le micorrize sono tutte uguali?
No, esistono le ectomicorrize, che non penetrano nelle radici ma le avvolgono dall’esterno, e le micorrize arbuscolari, invisibili a occhio nudo perché crescono all’interno della radice. I due tipi si specializzano nel commerciare nutrienti diversi, e così fanno gli alberi. Ad esempio, le varie specie di aceri e i frassini si associano alle endomicorrize, che sono migliori nell’acquisire fosforo, mentre querce, faggi, pini, tsughe, ciliegi e betulle presentano ectomicorrize che acquisiscono meglio l’azoto. Tutte queste variazioni creano difficoltà nel costruire modelli futuri.
Altri problemi sono costituiti da incendi e deforestazione: i primi perché immettono in atmosfera una ulteriore quantità di CO2, la seconda perché elimina alberi che potrebbero assorbirne.
Poiché tutto avviene fuori della nostra vista, occorrono altri sistemi per studiare la rete sotterranea. Come la lettura delle “firme chimiche” nelle foglie: a seconda delle sostanze che esse contengono è possibile capire che cosa avviene nel terreno; un altro sistema, per ora solo ipotizzato, è mappare le attività sotterranee mediante una rete di satelliti.
Attenzione: le monete di scambio in questa gigantesca economia sono sempre due: il carbonio e il denaro. Gli studi di cui si è parlato sono molto costosi e, di solito, sono compiuti da università finanziate di Europa, Nord America e Australia. Tutte regioni ricche e temperate del pianeta. Le aree di foresta pluviale tropicale sono sottorappresentate, falsando i modelli. E, soprattutto, non finanziano gli studi, come accade nel Brasile meridionale, una vasta zona interessata da inondazioni e cicloni extra tropicali che mettono a rischio la vita delle persone.
A quanto pare, non si tratta di una scelta cieca ma di fondi che vanno spesi per questioni più urgenti.
Le soluzioni trovate, al momento sono due:
1. una simulazione planetaria concentrata sulle aree locali, per consentire a chi deve prendere decisioni di apprendere come può evolvere in quei luoghi la crisi climatica;
2. la creazione di hub climatici locali in cui i ricercatori e chi prende le decisioni possano collaborare nel mondo reale, quello delle decisioni a breve termine.
Un punto di vista che ci riporta con i piedi per terra, dopo aver letto con estremo interesse gli studi precedenti. C’è da sperare che questi due mondi, quello dei finanziamenti accessibili, degli studi precisi, dei grandi modelli planetari, e quello delle decisioni da prendere per salvare persone ORA si incontrino anche in senso economico e pratico.
Perché, ora più che mai, ci si salva tuttɜ insieme e non abbiamo un mondo B.
Silvia Treves
Fonti:
The Confersation, Scientific American (podcast 1), podcast 2, podcast 3, EFI
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