Marco Merola è giornalista ambientale e fondatore del progetto Adaptation.it
Buongiorno Marco. Cosa si propone di fare Adaptation?
E’ una forma di giornalismo digitale inventato dai colleghi del New York Times, pionieri nell’idea di raccontare storie in un formato nuovo, mai sperimentato prima. Hanno creato contenuti combinando diversi elementi – testi, immagini, grafici, video, dati – con l’obiettivo di offrire un prodotto completo e accessibile a tutti.
Abbiamo deciso di portare questo approccio anche in Italia, concentrandoci in particolare sulla crisi climatica. A differenza dell’informazione globale, che spesso si focalizza su scenari futuri cupi e allarmanti, noi abbiamo scelto di adottare un’altra prospettiva: quella dell’adattamento e della resilienza.
Inizialmente, alcuni fraintendevano questo concetto, pensando che “adattarsi” significasse semplicemente arrendersi al cambiamento e cercare di subirlo con il minor danno possibile. In realtà, l’adattamento richiede uno sforzo enorme e una visione di lungo termine. Significa agire in modo concreto: studiare gli ecosistemi, conoscere i territori, comprendere le dinamiche delle città – anche quelle di cui spesso sappiamo molto poco.
Concretamente, come si traduce tutto questo nella pratica?
Ad esempio, possiamo immaginare città del futuro che non solo siano più vivibili ma ripensate completamente. Questo significa intervenire concretamente: ampliarle o costruirne di nuove seguendo criteri che siano diversi rispetto al passato. Criteri che tengano conto dell’ambiente, certo, ma anche delle nuove sfide che ci attendono. L’obiettivo è creare spazi urbani capaci di accogliere le persone e farle vivere bene anche in scenari molto diversi da quelli a cui siamo stati abituati fino ad oggi.
Lo stesso approccio vale per gli ambienti naturali. Pensiamo al tema delle alluvioni, della siccità, della carenza idrica, o alla gestione dei fiumi. L’Italia ormai subisce almeno due o tre gravi alluvioni ogni anno. Studiare queste aree è fondamentale. Un esempio concreto è rappresentato dalle cosiddette “zone allagabili” – o “casse di espansione” – che consistono nell’immaginare e realizzare spazi dove i fiumi, quando sono in piena, possano espandersi in modo controllato, riducendo i danni alle cose e alle persone.
Potresti approfondire quest’ultimo punto?
Significa progettare aree di decompressione, cioè spazi dove l’acqua in eccesso durante le piene possa defluire in modo controllato, evitando di colpire aree abitate o attività economiche. È un approccio intelligente e preventivo, che permette di convivere con eventi estremi anziché, subirli passivamente.
Ma questo è solo un esempio. Prendiamo i boschi: c’è chi sostiene che debbano essere lasciati al loro destino ed in balia degli eventi, senza intervenire, perché parte dalla convinzione che l’uomo abbia già fatto abbastanza danni. È una posizione diffusa soprattutto in certi segmenti ultra-ambientalisti della società. La realtà, però, è più complessa. Anche i boschi, oggi, si trovano ad affrontare condizioni mai sperimentate prima. Gli alberi hanno bisogno d’acqua per vivere e, se scarseggia, la crescita di nuovi alberi non è più una bella notizia perché si crea una grande competizione per la sopravvivenza. Dunque, bisogna monitorare i boschi, curarli, manutenerli. La natura, da sola, non riesce più a reggere l’urto del cambiamento climatico. Ovviamente, le buone norme di gestione valgono anche per gli incendi: rendere un bosco resiliente significa metterlo in condizione di affrontare vari tipi di rischi.
Come si inserisce Adaptation in tutto questo?
Con Adaptation, cerchiamo di praticare ciò che in inglese si chiama constructive journalism, o solution journalism: un giornalismo che non si limita a raccontare i problemi, ma esplora anche le soluzioni. L’informazione tradizionale si occupa, giustamente, di stare sui fatti di cronaca. Ma questo al pubblico non basta più. Eventi devastanti ne stiamo vivendo tanti. Il futuro ci porterà un aumento degli incendi, ondate di calore più lunghe e intense, siccità severissime. Se ci limitiamo a parlare solo di calamità le persone, per paura, essenzialmente, smetteranno di informarsi e non vorranno sapere più nulla. Invece è fondamentale introdurre anche nel giornalismo il concetto di speranza. La speranza che qualcuno stia davvero agendo per aiutare le future generazioni ad affrontare il mondo che verrà. Con Adaptation, vogliamo offrire proprio questa narrazione: realistica, ma orientata al cambiamento costruttivo.
Quali strategie di resilienza potremo vedere in campo – non tra decenni, ma in tempi ragionevoli?
Le soluzioni, in molti casi, esistono già o sono in fase di sviluppo. Ma vanno messe in campo subito, possibilmente nei prossimi due o tre anni. Abbiamo davanti sfide durissime, per esempio il fabbisogno energetico dell’umanità. I dati ci dicono che è in crescita costante anche per via di tecnologie come l’intelligenza artificiale che richiede enormi quantità di energia. Quindi oggi il messaggio che passa, a tutti i livelli è che più che “consumare meno” si debba “produrre di più”. Da fonti pulite e non da carbone, certo, ma senza abbandonare quell’approccio turbo-capitalistico che tanti disastri ha prodotto sul pianeta. E invece, la vera e più importante strategia di resilienza, secondo me, rimane il cambio di mentalità. Se l’intelligenza artificiale è sinonimo di sviluppo sicuramente non è uno sviluppo sostenibile, non ci prendiamo in giro.
Quindi, dal punto di vista socio-politico ed economico, come si può agire? È possibile integrare queste idee in un modello capitalistico brutale efuori controllo?
E’ un nodo cruciale. Alcuni immaginano un futuro fatto di comunità autosufficienti, capaci di produrre da sole la propria energia e il proprio cibo riducendo la dipendenza dalla grande distribuzione. Visione affascinante ma difficilmente concretizzabile su larga scala. Non viviamo in un mondo semplicemente capitalista ma in un mondo iper-capitalista. Dopo la Seconda Guerra Mondiale è stata sdoganata l’idea che lo sviluppo e il benessere potessero essere raggiunti attraverso il capitalismo ma i fatti ci dicono che solo una piccola parte dell’umanità si è arricchita davvero. Molti hanno inseguito ed inseguono anche oggi un benessere illusorio, magari possiedono uno smartphone di ultima generazione ma non i soldi per pagarsi le cure mediche.
Cambiare il paradigma non significa eliminare il capitalismo ma trasformarlo. Bisogna guardare in faccia la realtà, le nostre economie sono interconnesse e il commercio globale è alla base della stabilità economica dei Paesi. Non possiamo pensare che le merci smettano di viaggiare ma possiamo puntare su un capitalismo regolamentato, che metta davvero al centro il benessere collettivo e quello del pianeta. Oggi il pianeta è spaccato in due: da un lato c’è chi vuol costruire un futuro diverso e più sostenibile, dall’altro c’è chi continua a seguire il business as usual, ignorando o facendo finta di ignorare le conseguenze.
Ci sono enti o realtà che vi supportano in questo percorso?
Abbiamo lavorato con vari soggetti pubblici e privati che condividevano la nostra visione. Ma, su tutti, mi piace ricordare le Università, Ca’ Foscari a Venezia e il Politecnico di Torino, con cui abbiamo un rapporto particolarmente stretto. Io stesso insegno lì nel Master in Climate change adaptation and mitigation solutions e grazie al mio ruolo ho avuto modo di vedere e raccontare, su Adaptation.it, quali meraviglie tecnologiche si celano nei suoi laboratori. A Torino c’è il più sofisticato “pioggiatore” del mondo, una macchina capace di simulare la pioggia per studiarne le gocce e l’impatto che esse hanno al suolo. Contrariamente a quanto si pensi, pioggia non vuol dire solo acqua ma anche particolato atmosferico, pollini e virus che proprio attraverso le gocce vengono portati a terra. Si conosce molto poco di tutto questo, incredibile.
Un altro progetto di ricerca molto interessante del Politecnico che ho seguito col mio team di Adaptation e The Trip (l’agenzia di comunicazione che è dietro Adaptation Ndr) si chiama Mesohabsim e riguarda la modellizzazione degli habitat fluviali – ambienti delicatissimi dove vivono centinaia di specie vegetali e animali.
Dal 16 al 18 ottobre prossimi, infine, organizzeremo a Torino il Festival for the Earth: un grande evento che unisce divulgazione scientifica, giornalismo, arte e psicologia ambientale. Il tema dell’edizione 2025 sarà l’acqua, il bene più prezioso che abbiamo sul pianeta.
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