Utopia e conflitto: spunti e strade possibili
di Giulia Abbate
Il conflitto è alla base della narrativa: senza un conflitto, non ci sarebbe una storia da raccontare.
La cosa vale per la letteratura, dunque per la fantascienza, dunque per l’utopia (intesa come sottogenere della fantascienza, e non nel suo senso originario di dispositivo della filosofia, seppure anche questo tipo di utopia, preesistente alla forma romanzesca, mette in scena un conflitto. Lo vedremo nel post.)
Eppure, ora pensare a un conflitto in una utopia sembra difficile. In questi primi mesi di solarpunk.it, ci siamo spesso imbattutə in una domanda, da parte di chi ci legge e commenta sui social, domanda che a volte sconfina nell’affermazione: “Che tipo di conflitto può mai esserci in una utopia?” E l’affermazione è stata anche: “Che noia!”
Eccoci dunque a parlare di conflitto, per chiarire una questione meno spinosa di quel che sembra, e per dare a chi vuole scrivere solarpunk qualche strumento di riflessione, discussione e lavoro in più.
Nell’accostamento tra “conflitto” e “utopia”, ci sono due equivoci di base, uno per ognuna di queste parole.
Parlando di “utopia”, l’equivoco sta nel pensare che l’utopia debba mettere su carta un mondo perfetto sotto ogni punto di vista.
Non è così: l’utopia è piuttosto “un mondo migliore del nostro sotto alcuni punti di vista”. E già così apriamo tantissimi fronti di lavoro, ad esempio chiedendoci: quale punto di vista?
Nel racconto “Memorie di una ragazza interrotta” di Romina Braggion, abbiamo lo scenario di un mondo senza il genere maschile, scenario che ricalca quelli di fantascientiste come Charlotte Perkins Gilman e Joanna Russ, e che dichiara di essere utopico.
Non tutti potrebbero essere d’accordo, naturalmente: dunque, parte del lavoro di scrittura in un racconto come questo è quello di convincere – mettendo in scena una certa vicenda e innescando l’identificazione con i soggetti favoriti dall’utopia – che in un mondo di tal fatta qualcuno potrebbe effettivamente stare meglio.
La spiegazione dei motivi per i quali il mondo immaginato sarebbe migliore mira ad aprirci gli occhi sulle storture del nostro presente, nel quale gli aspetti “migliorati” dall’utopia vanno invece malissimo e fanno malissimo.
Un racconto simile potrebbe essere percepito come un racconto a tesi. E in effetti lo è, come molta parte della fantascienza, tra cui la distopia: con la distopia, estremizziamo un certo aspetto del nostro presente, rendendolo elemento di primo piano di un mondo peggiorato, per richiamare l’attenzione sulla critica e ammonire che non dovrebbe essere così.
È un procedimento che storicamente è derivativo dell’utopia, nella quale miglioriamo qualcosa per dimostrare che bisogna lavorarci. La distopia aggiunge una forte componente romanzesca non obbligatoria nell’utopia tradizionale.
Come anticipato, l’utopia filosofica originaria è qualcosa di diverso e forse qualcosa di più dell’utopia romanzesca: in quest’ultima non siamo obbligatə a costruire un sistema di valori e società-mondo alternativo a quello presente, come si fa nella filosofia, ma lavoriamo con la fiction, con le storie e la narrativa: lavoriamo proprio con i conflitti di cui si nutre tradizionalmente la letteratura.
E arriviamo così al secondo equivoco, appunto quello relativo alla parola “conflitto”.
In narrativa, il conflitto non è necessariamente una forte contrapposizione, drammatica e poderosa, tra personaggi buoni/cattivi; o un cataclisma di violenza; o la lotta tra un personaggio singolo e un sistema oppressivo e totalitario che vuole farlo a pezzi, scenario a cui ci ha abituato molta della recente produzione di “distopici”.
Il conflitto narrativo è una questione di dialettica: la dialettica tra due volontà diverse presenti nella trama.
Possiamo pensare a un protagonista e a un antagonista, per esempio. Nel caso della distopia recente, il protagonista individuale si pone contro un sistema antagonista: ed è qui appunto che in moltə sono portati a pensare, per analogia, che nell’utopia questo non si possa fare, perché non c’è nessun sistema contro cui combattere.
Anche in questo caso non è esattamente così.
Leggiamo un passo dalla sinossi di “Fenice citoplasmatica” di Irene Drago:
“C’è la revolución verde, certamente, con le intuizioni floreali della bioarchitettura, ma c’è anche l’incidente alla centrale nucleare di Bushehr sul Golfo Persico, e le mutazioni genetiche che ha provocato sulle creature viventi. Andrea ha studiato e collaborato con le migliori menti della biotecnologia, cervelli da premio Nobel, e adesso ha accettato un lavoro in una divisione all’avanguardia della ricerca medica a Teheran, nella Seconda Repubblica Islamica. Ma tutte le sue conoscenze e relazioni, e tutti i mezzi dell’ingegneria genetica avanzata sembrano impotenti contro il cancro che sta per mangiare viva sua figlia. Qual è la soluzione, quale la via della speranza?”
Qui abbiamo diversi conflitti: quello più evidente è la malattia, e la risposta da contrapporle; la menzione a una Repubblica Islamica ci porta a immaginare una dialettica culturale; c’è il dilemma di un padre scienziato; e un incidente nucleare che ha provocato mutazioni in un mondo forse più ecologico del nostro.
Nel racconto “Nutopia” di Fambrini e Carducci, la vicenda ruota intorno a un rito di passaggio: in una civiltà pienamente verde e solarpunk, le/gli adolescenti devono affrontare una prova importante, direi quasi esistenziale, alla quale si relazionano in modi diversi. Prima della suggestiva descrizione del momento della prova, momento che personalmente ho trovato uno dei più alti dell’intera antologia, ci sono le strade personali per arrivarci, tra dubbi e confronti sia dei/delle “maturandə” sia dei parenti.
Questi mi paiono già conflitti belli grossi sui quali lavorare, che supportano la mia prima confutazione: l’utopia non è un mondo perfetto, ma un mondo migliore, nel quale è comunque possibile innescare delle dialettiche e dei veri e propri conflitti personaggio-sistema.
Ma in narrativa, come già detto, si intende per “conflitto” qualsiasi contrapposizione di volontà tra due elementi della trama.
Dal Manuale di Scrittura di Fantascienza, nel paragrafo dedicato al conflitto:
“Il protagonista ha un obiettivo, o un desiderio, ma non può raggiungerlo subito perché qualcosa o qualcuno si oppone; oppure un evento sconvolge un equilibrio, e il personaggio deve difendersi da una volontà esterna. Il conflitto può essere di natura sentimentale, economica, familiare, legale, ecc.”
Ecco qualche esempio:
- una storia d’amore travagliata o contrastata da qualcosa; è il caso di “Solstizio” di Franco Ricciardiello, nel quale il viaggio della protagonista in bicicletta, in un mondo assolutamente pacifico e solarpunk, è il modo per ripercorrere il suo amore tramite flashback e per creare aspettativa: cosa succederà quando i due innamorati si incontreranno di nuovo?
- Un qualche tipo di indagine: l’utopia non prevede l’assenza di delitti, ma magari ha una diversa concezione dell’idea di “crimine”, come nel racconto “La prima legge” di Davide Del Popolo Riolo.
- Un’aspettativa: il breve racconto “La semina” di Serena Barbacetto è tutto incentrato su un progetto del protagonista adolescente, che silenzioso e ostinato “costruisce la sua impresa” nonostante gli impedimenti;
- Un mistero, che non deve riguardare per forza un crimine o uno scenario noir, ma può riferirsi anche al worldbuilding stesso: si segue il personaggio in una vicenda e nel frattempo si svela gradualmente la natura del mondo in cui si trova, usando in modo ponderato la reticenza narrativa.
È il caso del racconto “L’ultima chance” di Silvia Treves, narratrice raffinatissima, che conducendoci per mano nel dipanarsi di un dilemma riesce a costruire gradualmente il mondo futuro: lo svelamento del contesto vale da solo la lettura.
- Un incidente o problema concreto contingente: in “Nina e l’uragano” di Ana Rüsche, un’altra giovane protagonista si trova a fronteggiare un uragano in un momento in cui è in difficoltà, e non può pagarsi le necessarie protezioni tecnologiche.
A una lettura superficiale, che si fermi allo scenario, questo potrebbe sembrare un racconto distopico: ma come abbiamo visto, la presenza di un conflitto personaggio-sistema non è affatto prerogativa della distopia. In questo caso, la storia indica molto chiaramente una soluzione possibile, esistente e a portata di mano, ma anche rivoluzionaria.
Forse, a volte, il vero conflitto è tra noi e il nostro ambiente, intriso di una narrazione mainstream a senso unico che ostacola pesantemente la nostra capacità di spaziare con l’immaginazione e con la progettazione. Ma questo non è un problema dell’utopia, anzi: forse è proprio il succo della questione, la stortura contro la quale l’utopia lavora attivamente.
Pensiamo alle utopie classiche, quei viaggi dimostrativi in mondi che raggiungono, se non la perfezione, il massimo della perfezione possibile. Funziona tutto, l’umanità ha finalmente abbracciato il sistema di valori che ha posto fine a oppressioni e sfruttamenti di ogni tipo e ha permesso un nuovo giardino. Dov’è il conflitto in tutto ciò?
Il conflitto arriva quando chiudiamo il libro. Il conflitto è fuori, qui e ora.
L’utopia fatta bene non annoia anche quando è perfetta, perché infrange le nostre convinzioni su ciò che crediamo inevitabile. Con la messa in scena di un mondo migliore, perché diverso, solleva il velo di Maya, ovvero la “creazione” dell’apparenza fenomenica che ci circonda. E da fantascientistə, dovremmo lavorare proprio per questo, andando così a dimostrare, tra l’altro, che è il “realismo” la creazione immaginaria più ingannevole e sofisticata che ci sia.
Buone letture e buone scritture!
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