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Tanith Lee, Non mordere il sole (Don’t bite the Sun, 1976), traduzione di Roberta Rambelli, ed. Libra 1978

Il mio amico Hergal si era ucciso di nuovo. Era la quarantesima volta che andava a sbattere con il suo uccelloplano contro il Monumento a Zeefahr, ed era necessario fargli un corpo nuovo.  E quando lo andai a trovare al Limbo, girovagai per l’eternità, prima che un robot me lo rintracciasse.
Questa volta aveva la carnagione scura, era più alto di una trentina di centimetri, con i capelli molto lunghi e i baffi, tutti di scintillanti fibre dorate, e quelle stupide ali che gli spuntavano dalle spalle e dalle caviglie.
Attlevey, Hergal”, dissi io.


Tanith Lee, la Divina maestra del fantasy, ha anche scritto una breve serie di romanzi fantascientifici ambientati nel mondo di 4 BEE: una Terra postatomica, forse, oppure una colonia marziana, a giudicare dai colori del paesaggio; in questo primo volume non viene specificato.

È un’utopia; ma che utopia! La protagonista, logorroica ed egocentrica al punto che non sapremo nemmeno il suo nome, ci racconta la vita e i problemi di una Jang, una “gggiovane” direi, in questa società dove i giovani sono tenuti a divertirsi e a spassarsela in tutti i modi fino a età avanzata: non solo blande trasgressioni come rubare o devastare musei sono tollerate, ma si può cambiare corpo per provare a vivere nel sesso opposto e/o perché ci si è ammazzati praticando uno sport estremo; il nuovo corpo potrà essere accuratamente e stilisticamente progettato prima, con pelle di qualunque colore e appendici quali antenne od ali (seppure estetiche e poco funzionali).

Tra frenetici matrimoni che durano anche solo un giorno (condizione indispensabile per praticare sesso) e Case dei Sogni dove si può vivere un sogno sceneggiato in precedenza, il problema è inevitabilmente la noia: non arriva mai il momento per diventare “creatori”, ovvero genitori, e tanto meno si può lavorare o fare qualcosa di utile; peraltro il lavoro degli adulti è anch’esso qualcosa di fittizio, che robot e quasi-robot potrebbero benissimo al posto loro. La nostra protagonista, dietro lo sfacciato e forzato edonismo, nasconde un rovello: trovare qualcosa di sensato da fare. Respinta dalla possibilità di lavorare, in estrema difficoltà ad avere, così “gggiovane”, l’autorizzazione per un figlio, visceralmente affezionata alla sua insopportabile bestiola aliena da compagnia, si aggregherà con entusiasmo a una spedizione archeologica nel deserto, che potrebbe svelare qualcosa del passato delle tre città (ci sono anche 4 BAA e 4 BOO); dove mostrerà più buon senso dell’archeologo-guru che la dirige.

È l’occasione per uscire dal condizionamento urbano; la nostra protagonista, che è comunque più sensibile delle persone “integrate” che la circondano, contempla senza stancarsi il deserto, e riuscirà addirittura a vivere un momento di comunione quasi mistica con la natura, risvegliata da un acquazzone. Tra le rovine scopriranno un coccio con l’iscrizione “Non mordere il sole, ti brucerai la bocca”, su cui mediterà a lungo; ma anche la spedizione archeologica si concluderà disastrosamente. Dopo un flebile sussulto religioso (stato cancellato da tempo in quella società), si rassegnerà a fare la vita dei suoi amici.

Anche se probabilmente non è l’opera più rappresentativa della Lee (non è un fantasy), è più che adeguata a mostrare un’autrice dallo stile sfolgorante, espressivo, colorito, ironico, su una base di asciutta ironia britannica: sembra di vivere dentro alla psichedelia di “Yellow submarine”, un po’ sulla scia di “Arancia meccanica” per il gergo giovanile e di “Programma finale” di Moorcock, ma senza nichilismo violento: la protagonista sembra più una agiata “Sloane Ranger” che scorrazza per la “swinging London”. Il pedigree del romanzo si può far risalire a “Brave new world” di Huxley: anche qui abbiamo una società che sembra donare a tutti la possibilità di soddisfare ogni desiderio, ma è davvero un’utopia, se i nostri desideri sono stati sottilmente condizionati? Non sentiremo sempre il bisogno di qualcosa che vada oltre il capriccio del momento? È interessante notare che questa completa intercambiabilità di corpi e sessi viene vissuta edonisticamente, senza che abbia troppe conseguenze; nel romanzo le questione di genere non sono un tema, e del resto sembra che in quei primi anni ’70 tutti fossero troppo occupati a festeggiare e a godere della “rivoluzione sessuale” per porsi problemi terra terra come le discriminazioni di genere sul lavoro, o gli abusi.


Antonio Ippolito
Tanith Lee
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