la fiction climatica è la nuova fantascienza impegnata?
Franco Ricciardiello
Il presente post contiene il testo dell’intervento omonimo di Franco Ricciardiello a Stranimondi 2022, Milano, 9 ottobre 2022
Da un quarto di secolo a questa parte abbiamo visto un proliferare di opere di fiction — letteratura e cinema — che affrontano il tema dell’impatto ambientale dei cambiamenti climatici indotti dalle attività umane. Questo corpus di testi in rapida crescita è conosciuto oggi con il termine “climate fiction”, in italiano talvolta “fiction climatica”.
In precedenza, erano soprattutto studi scientifici a puntare il dito contro l’inquinamento, il consumo di risorse non riproducibili, l’effetto serra: la divulgazione scientifica diffonde almeno da fine anni Sessanta dati, resoconti e proiezioni allarmanti, con scarso coinvolgimento dell’opinione pubblica. La novità è il fatto che, finalmente, la fiction ha cominciato a interessarsi alla questione: si può dire, con Susanne Leikam e Julya Leida, che la climate fiction “è passata da colloquialismo sottoculturale che circola nella blog-sfera a parola d’ordine culturale e termine accademico.”[i]
Le storie sul cambiamento del clima per mano umana non sono una novità assoluta: fino dall’antichità — pensiamo alla mitologia greca — si è fantasticato sulla possibilità di influenzare gli elementi atmosferici; la climate fiction nasce però insieme alla consapevolezza del cambiamento climatico globale, delle sue cause principali nello sfruttamento delle risorse fossili, del rischio di danni irreparabili alla civiltà e alla qualità della vita.
La prima comparsa dell’etichetta “climate fiction” risale al 2008, per mano dello scrittore freelance Dan Bloom, che vive tra Tōkyō e Taiwan; tuttavia si è imposta nell’uso comune solo cinque anni più tardi, grazie alla divulgazione della rivista Christian Science Monitor e alla radio no-profit NPR, che per prime parlarono di una corrente letteraria incentrata sull’origine umana del cambiamento climatico.
In seguito, Dan Bloom fornì la propria definizione di cosa intendesse con “climate fiction”:
Cli-fi è un nuovo termine per romanzi, racconti e film, opere d’arte e narrativa che si occupano di cambiamenti climatici e problemi di riscaldamento globale, […] in cui il cambiamento climatico è un tema importante , anche se non sempre il tema principale.
(intervista a David Thorpe, da SmartCitiesDive)
Prima che la fiction climatica diventasse un vero e proprio genere, o sottogenere, la letteratura moderna si è già occupata di questioni climatiche; due esempi:
- Il mondo sottosopra (1889) di Jules Verne, i cui protagonisti intendono raddrizzare l’asse terrestre per renderlo perpendicolare al piano dell’ellittica, con il rischio di provocare una catastrofe climatica;
- forse il primo autore a denunciare la possibilità di disastro ambientale a causa dell’inquinamento provocato dal consumismo è il canadese Laurence Manning in L’uomo che si destò (1933), il cui protagonista si risveglia dall’animazione sospesa nell’anno 5000 per scoprire che l’umanità stenta a salvarsi dal disastro della Grande Era dei Rifiuti.
Avvicinandosi ai giorni nostri, e alla data presunta di nascita della climate fiction, non sorprende certo che le prime prove mature e interessanti abbiano origine nella fantascienza degli anni Novanta:
- La parabola del seminatore (1993) di Octavia Butler è ambientato in un futuro destabilizzato dal cambiamento climatico; una adolescente che vive nella California devastata da siccità e incendi, viaggia verso nord insieme a alcuni seguaci del sistema filosofico e religioso da lei elaborato, “Il seme della terra”.
- Atmosfera letale (1994) dello statunitense Bruce Sterling può essere idealmente considerato l’anello di congiunzione tra cyberpunk e solarpunk. La vicenda è ambientata nel nostro secolo, in un pianeta sconvolto dal disastro ecologico provocato dal capitalismo. Il clima è impazzito, gli abitanti sono in balia di virus mutanti. Il protagonista, un giovane affetto da varie patologie ai polmoni, insieme alla sorella maggiore si unisce a un gruppo di ricercatori che inseguono tornado negli USA desertificati dall’effetto serra; gli scienziati attendono un uragano F-6, un evento meteorologico estremo, solamente teorizzato con proiezioni matematiche, potenzialmente in grado di mettere in pericolo decine di migliaia di vite.
Quali sono i confini tra post-apocalittico, fiction climatica e solarpunk? Dove finisce l’uno e dove inizia l’altra?
Il post-apocalittico può essere ambientato dopo una catastrofe climatica planetaria, e in genere racconta storie di sopravvivenza o di rinascita civile, culturale, sociale — benché il più delle volte si riduca a uno scenario in cui i sopravvissuti si trovano a lottare per la propria esistenza contro altri gruppi di sopravvissuti, in parabole morali reazionarie senza alcuna relazione con ciò che avviene in situazioni di pericolo collettivo.
Il solarpunk immagina storie ambientate in un futuro migliore dell’attuale, di impronta anche utopica, con società fondate sulla sostenibilità ambientale, inclusione, democrazia dal basso; può avere punti di contatto con la climate fiction, come situazione di partenza per la trama oppure come scenografia per raccontare come si affronta il degrado climatico.
La necessità di passare oltre la climate fiction per arrivare al solarpunk è esplicitata bene da uno tra i più conosciuti autori di fantascienza, lo statunitense Kim Stanley Robinson:
Abbiamo sicuramente bisogno di più storie che descrivano persone che affrontano il problema globale e trovano soluzioni. Sono storie nuove, che sono rare, e possono essere molto preziose per aiutare le persone a immaginare come il mondo possa diventare un pianeta in cui le persone sono in buon equilibrio con la biosfera. Il mondo è la nostra unica e sola casa, quindi dobbiamo prendercene cura, altrimenti niente andrà bene.
(Sonam Joshi intervista K.S. Robinson, in The Times of India, 2022; intervista tradotta da Silvia Treves per Solarpunk Italia)
Questo passaggio al solarpunk è auspicabile, in quanto la fiction climatica non sempre è in grado di dare risposte all’ansia del futuro che provoca: spesso è parente prossima del distopico piuttosto che dell’utopia. Uno studio dello Yale-NUS College di Singapore del 2018 ha infatti rilevato che solo il 26% dei lettori afferma che la lettura di un libro di climate fiction ha suscitato in loro una risposta emotiva positiva: la maggior parte si sente angosciata, triste o ansiosa.
A ogni modo, fra i tre generi citati, la fiction climatica è oggi quello che più ha avuto successo tra gli autori non legati al genere, ancora più del post-apocalittico che comunque ha fornito ambientazioni per libri anche di grande successo, si veda La strada (2006) di Cormac McCarthy — che tra l’altro, secondo me inopinatamente, è stato incluso da The Guardian tra i cinque più importanti romanzi sul cambiamento climatico (!).[ii]
L’allarme per l’innalzamento della temperatura media del pianeta è infatti uscito dalle pagine della fantascienza per diventare preoccupazione comune di scrittrici e scrittori in tutto il mondo.
Direi che gran parte della narrativa americana sul clima sia decisamente di natura apocalittica o distopica, ma penso che stia cambiando. Quando inizieremo a vedere più fiction sul clima pubblicate in questo paese da autori di altre parti del mondo, inizieremo a vedere più tipi di strutture narrative che non si basano su questo binario di speranza e disperazione, utopico e distopico.
(Amy Brady, direttrice esecutiva di Orion Magazine, cit. in Anna Funk, “Gli scrittori di climate fiction possono raggiungere le persone in modi preclusi agli scienziati?”, Smithsonian Magazine 2021, tradotto da Silvia Treves per Solarpunk Italia)
Infatti, la natura della climate fiction non è necessariamente speculativa[iii], le storie possono essere ambientate anche nel nostro presente o nel futuro molto prossimo, e ciò a quanto pare risulta un incentivo per autori e autrici che non ci tengono a associare il proprio nome alla fantascienza.
Non c’è dubbio che l’autore che più continuativamente ha scritto opere di fiction climatica, in un periodo di decine di anni, sia lo statunitense Kim Stanley Robinson. Attualmente nessun autore al mondo — e non molti scienziati o economisti — sono in grado di fare una proiezione su come sarà possibile evitare un’apocalisse ecologica e sociale, di proporre un’ipotesi che preveda soluzioni in campo economico, tecnologico, sociale e politico, altrettanto realistica di quella contenuta nel suo romanzo Il Ministero per il Futuro(2020).
La storia inizia con un evento catastrofico: un’onda anomala di calore colpisce l’India, una temperatura così alta da provocare milioni di vittime. La tragedia ha conseguenze planetarie: i governi dei paesi più sviluppati si rendono conto del pericolo di una catastrofe ecologica e fondano un’agenzia internazionale chiamata Ministero per il Futuro, sorta di “avvocatura” per le generazioni che ancora devono nascere, e che rischiano di venire al mondo in un ambiente irreparabilmente compromesso. Quali poteri ha in concreto il Ministero? Cosa può fare contro l’inerzia dei governi, il disinteresse delle banche centrali, l’ostilità di tutti coloro che fondano il loro tenore di vita sullo sfruttamento di combustibili fossili, non solo le multinazionali del petrolio, ma anche intere nazioni? Se Robinson ha ragione, per raggiungere una vera sostenibilità non sarà assolutamente sufficiente la volontà di tutto il mondo, perché ci saranno forze che si opporranno con ogni mezzo: un negazionismo cieco e egoista che preferirà vedere la Terra devastata piuttosto che cambiare abitudini di vita.
Nel decennio precedente, quando neppure era nata l’etichetta “climate fiction”, Robinson aveva già esplorato le conseguenze del riscaldamento globale nella trilogia Science in the Capital, inedita in Italia; è composta dai romanzi Forty Signs of Rain (2004), Fifty Degrees Below (2005), e Sixty Days and Counting (2007). I temi che affronta sono estremamente attuali: l’innalzamento del livello dei mari, lo sforzo internazionale per riattivare la Corrente del Golfo il cui flusso si arresta, lo scontro tra scienziati e negazionisti sul cambiamento climatico, la necessità di affrontarlo sia a livello di politica nazionale che di relazioni internazionali.
È il caso di ricordare anche New York 2140 (2017), ambientato nella metropoli americana parzialmente sommersa a causa dell’innalzamento dell’oceano; la storia racconta un tentativo di colossale speculazione immobiliare a danno degli ultimi residenti non abbienti, mentre un uragano colpisce con catastrofica violenza quello che rimane della città, costringendo New York allo stato di emergenza. Ciò provoca la rivolta di chi ha perso tutto contro l’un per cento degli abitanti più ricco, chiuso nei suoi quartieri e nei suoi palazzi per non aprire gli alloggi vuoti e sfitti.
Poiché fino a non molti anni fa le storie sul clima danneggiato dall’azione antropica erano patrimonio quasi esclusivo della fantascienza, è normale che il gruppo nazionale più numeroso di opere provenga dagli Stati Uniti, il più grande mercato editoriale per la science fiction — benché in questo campo la Cina stia facendo passi da gigante.
L’afroamericana Sherri L. Smith pubblica nel 2013 Orleans, romanzo young adult afrofuturista con ambientazione distopica — talvolta si fatica a distinguere la fiction climatica dal post-catastrofico. Dopo una serie di devastanti uragani, la costa del Golfo del Messico viene messa in quarantena a causa di una grave epidemia; anni dopo, tutti sono convinti che la vita nel Delta del Mississippi sia quasi estinta; in realtà la società è regredita a uno stadio tribale. La protagonista è determinata a portare il figlio del capo della tribù Zero Positivo oltre il Muro che circonda la zona del delta.
L’americano Paolo Bacigalupi, autore di quel The Windup Girl (2009) stranamente tradotto con il titolo La ragazza meccanica (e tra l’altro pubblicato in Italia da una casa editrice specializzata in gaming, non in letteratura), ha scritto anche l’interessante The Water Knife (2015). Gli stati sudoccidentali degli USA sono devastati dalla siccità indotta dal cambiamento climatico; il protagonista lavora sottraendo acqua pubblica per dirottarla a delle arcologie di Las Vegas abitate dai ricchi; inviato nel torrido sud per verificare una straordinaria disponibilità d’acqua in Arizona, incontra una giornalista e una giovane migrante dal Texas, che sogna di fuggire a nord.
Dello stesso anno è la pubblicazione di Deserto americano (2015) di Claire Vaye Watkins: la siccità ha trasformato la California in un unico grande deserto; i fiumi, il verde, la fauna, il fogliame lussureggiante, i frutteti sono svaporati come l’acqua degli ultimi bacini sorvegliati dalla Guardia nazionale. I protagonisti sono un’ex modella vezzeggiata e poi messa da parte dal mondo della moda, e un reduce dell’esercito che si è lasciato alle spalle crisi, carestie e guerra; un giorno scendono a Los Angeles dove si imbattono nella danza della pioggia di un raduno punk, poi rapiscono una bambina maltrattata dai parenti, e affrontano un lungo viaggio su strade arroventate e poco sicure verso il verde, fertile Wyoming, oltre il deserto: un percorso visionario in un’epoca oscura, dominata da disuguaglianze sociali, nella quale violenza, misticismo e superstizione germogliano tra le rovine del sogno americano.
È stato tradotto in italiano anche Tempo variabile (2020) di Jenny Offil. Lizzie è una bibliotecaria generosa e un po’ spaesata, con la quale le persone si confidano. Un giorno un’amica, esperta di cambiamento climatico, le chiede di incaricarsi di rispondere alle mail degli ascoltatori del suo podcast: messaggi allarmati su come sopravvivere a una catastrofe, sul controllo globale, sulla fine dell’umanità, che amplificano le sue preoccupazioni fino a mettere in dubbio ogni sua certezza, compreso l’amore per il marito. Eppure resiste, opponendosi alla paura per il futuro in un’America in balia degli stravolgimenti climatici e dell’arroganza della politica.
Desertificazione del sud-ovest e innalzamento del livello dei mari sono quindi le principali preoccupazioni degli autori americani; occorre notare però come con il passare degli anni le questioni climatiche siano passate da autori “di genere” come Robinson, Smith e Bacigalupi, a autori e autrici chiaramente mainstream — e questa tendenza aumenta e si amplifica negli ultimi anni.
È del 2020 I figli del diluvio di Lydia Millet, la cui trama sembra una via di mezzo tra Il signore delle mosche di Golding e Un gioco da bambini di Ballard.[iv] Alcune famiglie trascorrono le vacanze estive insieme in una villa in riva all’oceano; i genitori si dedicano a alcolici e ozio, i figli minorenni sono abbandonati a se stessi: maschi e femmine tra 7 e 17 anni che rifiutano il comportamento imbarazzante degli adulti. Sulla scena irrompe un evento meteorologico devastante, un diluvio che non solo demolisce la villa, ma distrugge la città. I ragazzi si trovano a doversela cavare da soli in una terra irriconoscibile. Gli adulti rappresentano l’America, che ha perso la possibilità di evitare o anche solo vedere il risastro imminente; la nuova generazione invece potrebbe essere una speranza, perché si affida alla Natura trovando nuovi linguaggi, nuovi sguardi, nuove risorse per reinventare il mondo.
Nello stesso anno esce anche Terre sommerse (2020), romanzo d’esordio di Kassandra Montag, che si inserisce nel tema dell’innalzamento delle acque (di nuovo c’è il diluvio nel titolo). Gli oceani si sono riversati all’interno del continente americano, trasformandolo in un arcipelago; gli abitanti sopravvissuti sono rifugiati sui pochi lembi di terra rimasti lungo la dorsale delle Montagne Rocciose. Il crollo del potere statale ha condotto a una pericolosa anarchia, con bande di pirati che imperversano sui mari. La protagonista, sfollata dal Nebraska, naviga su una piccola imbarcazione insieme alla figlia di sette anni, vivendo di pesca e baratto. La vicenda ha una svolta quando scopre che la sua figlia primogenita, rapita otto anni prima dal padre, è ancora viva e si trova nel settentrione.
È infine molto recente, solo dell’anno scorso, Qualcosa di nuovo sotto il sole (2021) di Alexandra Kleeman. Anche questo romanzo è ambientato in California, che non cessa di essere terra-simbolo del sogno americano, anche quando questo viene meno; l’inizio è strettamente realistico, per scivolare verso il fantastico nel corso della trama. Uno scrittore, a Los Angeles per seguire le riprese di un film tratto da un suo romanzo, si accorge che la produzione trasforma una storia intima in un banale horror. È anche costretto a assistere alla devastazione della California a causa di incendi e siccità, oltre che dalla criminale insensibilità delle multinazionali: ogni cosa, acqua potabile compresa, è rimpiazzata da un prodotto artificiale studiato a tavolino dalle grandi aziende.
La climate fiction di produzione statunitense sembra recuperare alcuni cliché del post-catastrofico (l’anarchia nella sua accezione dispregiativa, il tutti contro tutti, la regressione culturale), eppure è possibile rintracciare nelle trame, nelle scelte autoriali, un’amara critica all’America di oggi, alla paralisi di chi dovrebbe prendere decisioni, alla lobby fossile che contrasta in ogni modo la presa di coscienza del disastro incombente. Certo, non c’è piena consapevolezza dello stretto legame tra capitalismo e combustibili fossili, e la catastrofe climatica è accettata anche come dato di fatto inevitabile, ma non c’è dubbio: non è più patrimonio della science fiction, anche scrittori molto lontani dal genere cominciano a riflettere sul futuro.
Spostandosi di poco dalla prospettiva statunitense, arriviamo in Canada. Molte fonti accomunano alla fiction climatica la trilogia Oryx & Crake di Margaret Atwood, che ha raggiunto fama internazionale con la serie tratta da Il racconto dell’ancella (1985), e che non perde occasione per dichiarare come ciò che scrive non sia fantascienza; tuttavia in questa terna di romanzi, tutti tradotti in Italia (effetto dei serial tv) — L’ultimo degli uomini (2003), L’anno del diluvio (2009) e L’altro inizio (2013) — la catastrofe è esplicitamente imputata alla scienza e al suo travalicare i limiti del consentito, nel tentativo di manipolare l’esistenza tramite ingegneria genetica: un tema quasi biblico, dunque, che non solo non ha nulla a che vedere con la crisi ecologica, ma è anche sostenuto da una visione reazionaria.
Interessante è invece American War (2017) del canadese di origine egiziana Omar el Akkad. Il romanzo racconta di una nuova guerra di Secessione nella seconda metà del nostro secolo, provocata dalla dichiarazione d’indipendenza di cinque stati USA, dopo che il congresso federale ha messo al bando i combustibili fossili per fermare l’effetto serra. La protagonista vive con la famiglia nella costa della Louisiana flagellata da eventi climatici estremi; costretta a emigrare, finisce direttamente coinvolta nelle vicende belliche, da una parte e dall’altra del fronte.
Franco Ricciardiello
fine prima parte – continua
Note
[i] Susanne Leikam e Julya Leida, “Cli-Fi in American Studies: a research bibliogaphy”, in American Studies Hournal, 2017
[ii] Chiunque abbia letto il romanzo si è reso conto che McCarthy non individua l’origine della catastrofe nel cambiamento climatico per azione antropica, ma rimane nel vago; potrebbe essere una guerra nucleare o batteriologica, e qualche critico ha indicato persino l’impatto di un asteroide. L’autore si mantiene comunque nel vago, e comunque tutti gli indizi escludono una crisi climatica.
[iii] Nel senso, rintracciabile soprattutto in lingue estere come lo spagnolo o l’inglese, di categoria narrativa che comprende generi con elementi che non esistono nella realtà, nella storia, nella natura o nell’universo.
[iv] A proposito di J.G. Ballard, c’è chi considera climate fiction, o antesignana del genere, la sua famosa “tetralogia degli elementi”; a prescindere dal fatto che di solito questi quattro romanzi vengono considerati come un “insieme” soltanto in Italia, è evidente che si tratta di opere di tipo surrealista-postmoderno, in cui il paesaggio deformato da un disastro globale riflette l’inner space dei protagonisti, il loro “spazio interiore” (“luogo di incontro tra pulsioni della psiche umana e immagini e simboli veicolati dai mass media”). Il fatto che l’origine della catastrofe planetaria sia attribuita a eventi naturali — l’improvviso aumento della radiazione solare, una mutazione biologica — o inspiegabili — il vento “dal nulla” appunto — esclude la possibilità di inserirli nella climate fiction, con la sola possibile eccezione, forse, di Terra bruciata (1964), dove l’apocalisse dell’umanità è provocata dall’azione di rifiuti industriali sull’evaporazione superficiale degli oceani. Rimane il fatto che anche qui la causa rimane assolutamente in secondo piano rispetto agli effetti narrativi.
Comments are closed