di Franco Ricciardiello
Abbiamo già scritto in precedenza sul sito di Solarpunk Italia a proposito del rapporto tra utopia e conflitto:
- in un post dedicato al tema, Giulia Abbate ha precisato che per “conflitto” non si intende necessariamente una forte contrapposizione, drammatica e poderosa, tra personaggǝ buoni/cattivi, come potrebbe indurre a pensare la parola. Il conflitto narrativo è una questione di dialettica tra due volontà diverse presenti nella trama; deve essere introdotto nella narrazione il prima possibile, anche direttamente nella prima scena, e risolto nel finale della storia. Inoltre nella fantascienza, considerata la natura del genere letterario, deve esserci una relazione diretta tra in novum e il conflitto.
- In un intervento che abbiamo tradotto dall’inglese, Kim Stanley Robinson ha affrontato la questione del rapporto tra il concetto filosofico di utopia e le esigenze di drammatizzazione narrativa del romanzo, giungendo alla conclusione, mutuata da The Dispossessed[1] di Ursula Le Guin, che “descrivendo una società utopica in un momento di pericolo storico, le crei tutti i tipi di problemi che i suoi personaggi devono risolvere”.
Viene da chiedersi perché questo concetto di “conflitto” causi fraintendimento tra i lettori e le lettrici di science fiction. Non sono naturalmente il primo a chiedermelo. La scrittrice statunitense Maureen McHugh per esempio si è posta la medesima questione a proposito delle reazioni suscitate dalla pubblicazione del suo romanzo China Mountain Zhang (1992)[2], scritto con il proposito di trasgredire i tópoi della science fiction anglosassone.
Di tanto in tanto ricevo posta da persone che si lamentano del fatto che il romanzo non abbia davvero una trama e alcune recensioni online si lamentano della stessa cosa. Naturalmente, è raccontato in più punti di vista e ho avuto quest’altra grande teoria sulla struttura del libro.[3]
Maureen McHugh, The anti-SF novel (discorso in pubblico alla Philadelphia SF society)
È sufficiente questa volontà dell’autrice di sottrarsi agli stereotipi del genere per generare confusione e perplessità nei lettori di fantascienza. Infatti il protagonista del romanzo, Zhang Zhongshan, giovane omosessuale in una Cina del XXII secolo che domina l’economia mondiale dopo una crisi congiunturale negli USA, non riesce a cambiare le condizioni di ingiustizia del mondo futuro in cui è ambientato: anzi non se lo propone neppure — e questo in chiara violazione di uno degli assunti più tenaci dello stereotipo del protagonista maschio WASP della fantascienza: l’esempio individuale è il primus motor del cambiamento, anzi il progresso sociale-civile-scientifico dell’umanità avviene solo su impulso individuale.
Così l’autrice sintetizza l’accoglienza di certǝ lettorǝ:
Se Zhang non è determinante per abbattere il governo socialista piuttosto maldestro sotto il quale vive, e non opererà cambiamenti politici drammatici affinché quel governo inizi a prendere un po’ più sul serio i diritti degli omosessuali, cosa ci sta a fare?[4]
Maureen McHugh, ibid.
Eh sì, perché il primo comandamento della science fiction, e il suo principale modello strutturale, è massimalista: il mondo del racconto deve essere cambiato dall’azione — ed è questa la ragione per cui l’ambientazione risulta l’elemento più importante nella progettazione di un’opera di fantascienza.
Ma perché, come è nata questa convinzione, che non sembra condivisa dagli appassionati di altri generi letterari? Ha a che vedere con il concetto di science fiction come letteratura di idee, o è semplicemente una deformazione patologica?
Vediamo la famosa definizione di “fantascienza” data da un celebre autore di genere:
La fantascienza è letteratura di idee. Le idee mi entusiasmano, e non appena mi entusiasmo, l’adrenalina sale e subito prendo in prestito energia dalle idee stesse. La fantascienza è qualsiasi idea che nasce nella testa e non esiste ancora, ma presto esisterà, e tutto cambierà per tutti, niente sarà mai più lo stesso. Non appena hai un’idea che cambia una parte anche piccola del mondo stai scrivendo fantascienza. È sempre l’arte del possibile, mai dell’impossibile.[5]
Ray Bradbury, The Art of Fiction, intervista su The Paris Review n. 192, 2010 (il grassetto è mio)
C’è da sottolineare che questo concetto dell’idea che cambia una parte anche piccola del mondo è spesso interpretato, da chi scrive fantascienza e soprattutto da chi la legge, in chiave massimalista: “un’idea che cambia il mondo”, e questo concetto si è radicato al punto tale da divenire un dogma, al punto che ǝ fan si ritengono ingannatǝ se viene violato.
(per chi fosse interessatǝ a altre celebri definizioni di “science fiction”, Jason W. Ellis ha compilato una raccolta di opinioni scritte da Ursula Le Guin, Pamela Sargent, Theodor Sturgeon e moltǝ altrǝ; il documento è in lingua inglese).
Michael Swanwick una volta ha parlato di come, mentre scriveva La figlia del drago di ferro, scoprì che una differenza tra fantasy e fantascienza è che il fantasy è spesso normativo e la fantascienza spesso trascendente. (Perdona Michael, se l’ho storpiato.) Un altro modo per dirlo: lo scopo della quest, oltre a raccogliere abbastanza punti-trama da arrivare alla fine del libro, è correggere un tremendo errore e portare di nuovo ordine nel mondo (o nel regno). […] Nella fantascienza il punto è spesso quello di infrangere l’ordine esistente, di trascenderlo. Le persone si evolvono e diventano qualcosa di migliore, più cool, Slan. Oppure l’IA lasciata libera nel sistema evolve e muta, fino a cambiare il mondo che conosciamo, come in Neuromante. Accade in Dune, con quella una sorta di figura cristologica, Paul Muad’dib, che prepara la strada a suo figlio, il verme gigante, il quale trascende l’umano.[6]
Maureen McHugh, ibid. (il grassetto è mio)
Ecco un elemento estetico che spesso spiazza il lettore non specializzato: nelle storie di fantascienza spesso la posta in palio nel conflitto è l’intero destino del “mondo” in cui è ambientato, che può essere una galassia o solo un pianeta, una nazione o una città soltanto. Non solo il conflitto narrativo scaturisce, giustamente, in modo diretto dal novum, ma mette sul piatto della bilancia il destino stesso dell’ambientazione, legata a filo doppio con il successo (o l’insuccesso) deǝ protagonistǝ — e questo massimalismo può sconcertare chi è abituatǝ a letture di diverso tenore:
Questa è la storia centrale della sf, come la leggiamo tutti noi adolescenti o eterni adolescenti, è la vera e per me seria debolezza della sf. Se c’è un’ingiustizia, l’eroe vi porrà termine. Non importa se il racconto è sulla scala di una città o di un pianeta o della galassia, la sf è la storia dell’outsider più intelligente, mutante o dotato di poteri speciali e quindi è la persona, l’unica persona che può essere determinante.[7]
Maureen McHugh, ibid. (il grassetto è mio)
McHugh non è la sola autrice a avere tentato la strada di un’alternativa a questo massimalismo. I primi titoli che mi vengono in mente, oltre China Mountain Zhang, sono due romanzi di Connie Willis, Remake[8] e Bellwether[9], e a questo punto mi domando se non sia rilevante il fatto che si tratta di autrici e non autori (domanda retorica, come si suole dire)[10].
- Remake (1995) ha come protagonista Alis, giovane appassionata di cinema che deplora la nuova Hollywood in cui non si utilizzano più attori e attrici in carne e ossa, bensì creazioni tridimensionali di assoluto realismo, a partire da dettagli perfetti di corpi umani riprodotti digitalmente: gambe, bocca, occhi. La moda del momento dell’entertainment è il remake di capolavori del cinema classico con attori “sintetici”. Sogno di Alis è invece danzare davvero in un film, piuttosto che prestare il proprio volto campionato a Ginger Rogers o a un altro fantasma digitale, come le propone l’amico Tom che lavora nell’industria cinematografica.
- Bellwether (1995) è ambientato nel futuro prossimo, nel mondo della ricerca scientifica; la protagonista tenta di scoprire un algoritmo che spieghi la nascita di quei fattori culturali che si definiscono con il sostantivo “mode” — per esempio il cubo di Rubik, l’accorciarsi o allungarsi dell’orlo delle gonne, i tatuaggi etc — analizzando a fondo le “spie che indicano una tendenza” (è questa una traduzione di bellwether), e che appartengono in ultima analisi al campo della teoria del caos.
Bastano questi esempi di trame per immaginare che una parte del pubblico di lettorǝ si sia sentita defraudata, o quantomeno non si sia ritrovata nella definizione di fantascienza applicata ai tre romanzi.
A mio avviso, uno dei vantaggi del solarpunk è proprio la prospettiva di smontare il carattere massimalista della fantascienza; genere letterario nato da una costola di quest’ultima, deve violarne gli stereotipi più triti per arrivare al grande pubblico non specializzato. Sarebbe soltanto un vantaggio se il conflitto narrativo si spostasse dal piano macro dell’ambientazione a quello, per così dire, “locale”, in cui alla fine della storia se qualcosa è cambiato, è nei termini del rapporto tra il/la protagonista e l’antagonista e non nelle premesse dell’ambientazione. Per tornare ancora una volta Maureen McHugh dalla quale siamo partiti:
Non scrivo vera anti-fantascienza, per quanto mi piacerebbe. Ma temo che se gli scrittori non esaminano costantemente il genere, si fossilizzerà e morirà, quindi sono sempre alla ricerca dell’assunto inconscio che faccio e mi chiedo se non dovrebbe essere pizzicato o attorcigliato o capovolto.[11]
Maureen McHugh, ibid.
Franco Ricciardiello
Note
[1] Ursula LeGuin, “I reietti dell’altro pianeta”, ed. Nord 1976, poi anche con il titolo “Quelli di Anarres”; edizione più recente: Mondadori, 2019
[2] Maureen McHugh, “Angeli di seta”, ed. Fanucci, 2002
[3] “I get mail once in awhile from people who complain that the novel didn’t really have a plot and some on-line reviews complain about the same thing. Of course, it’s told in multiple points of view and I had this other grand theory about the structure of the book.”
[4] “If Zhang isn’t going to be instrumental in bringing down the rather klutzy socialist government under which he lives, and isn’t going to make dramatic political changes that cause that government to start taking the rights of homosexuals a little more seriously, what is he going to do?”
[5] “Science fiction is the fiction of ideas. Ideas excite me, and as soon as I get excited, the adrenaline gets going and the next thing I know I’m borrowing energy from the ideas themselves. Science fiction is any idea that occurs in the head and doesn’t exist yet, but soon will, and will change everything for everybody, and nothing will ever be the same again. As soon as you have an idea that changes some small part of the world you are writing science fiction. It is always the art of the possible, never the impossible.”
[6] “Michael Swanwick once talked about how, when he was writing THE IRON DRAGON’S DAUGHTER, he found that one difference between fantasy and science fiction was that fantasy was often normative, and science fiction was often transcendent. (Forgive Michael, if I’ve mangled that.) Another way to say this is to say that the purpose of the quest, besides collecting enough plot coupons to get to the end of the book, is to right a tremendous wrong and bring order back into the world or kingdom. Sometimes, as it is in Tolkien, the order is a less glorious order–maybe you’ve got men in charge instead of elves with all the reduction in aesthetics that implies–you know, instead of palaces among the trees we’ve got Elvis paintings on black velvet. In science fiction the point is often to shatter the existing order, to transcend it. People evolve and become something better, cooler, SLAN. Or the AI is released into the system at large to evolve and change, thereby changing the world as we know it, as in NEUROMANCER. DUNE does that, in a Christ- figure sort of way, with Paul Muad’dib clearing the way for his son, the giant worm, who transcends human.”
[7] “This is the central story of sf, as read by all us adolescents and arrested adolescents, it’s the real and for me, serious indulgence of sf. If there’s an injustice, the hero will stop it. It doesn’t matter if the story is on the scale of a city or a planet or the galaxy, sf is the story of the outsider who is smarter, mutated, or endowed with special powers and therefore is the person, the only person who can make the difference.”
[8] Connie Willis, “Strani occhi”, Urania Mondadori 1997
[9] Connie Willis, “Il fattore invisibile”, Urania Mondadori 1999
[10] A dire il vero anche un’opera come Dhalgren (1975) di Samuel R. Delany (“Dhalgren”, Libra editrice 1982) ha suscitato una notevole incomprensione nel pubblico, specialmente nei lettori di science fiction, malgrado il milione di copie vendute nei soli Stati Uniti. In proposito, Delany ha dichiarato nel 1989: “un buon numero dei più infuriati lettori di Dhalgren, quelli sconcertati o irritati dal libro, semplicemente non riescono a vedere la corretta distinzione tra sesso e società, né la natura e il senso delle frecce occasionali che li collegano, una visione che si trova appena sotto la superficie del romanzo” («A good number of Dhalgren’s more incensed readers, the ones bewildered or angered by the book, simply cannot read the proper distinction between sex and society and the nature and direction of the causal arrows between them, a vision of which lies just below the novel’s surface» S. Delany, “Of Sex, Objects, Signs, Systems, Sales, SF, and Other Things” in The Straits of Messina, Serconia Press, Seattle). Credo che sia di qualche rilievo, in proposito, il fatto che Delany è dichiaratamente gay.
[11] “I don’t really write the anti-sf novel, much as I would like to. But I’m afraid that if writers don’t constantly examine the genre, it will fossilize and die, so I’m always looking for the unconscious assumption I make and wondering if it shouldn’t be pinched or twisted or turned on its head.”
Comments are closed