Ursula K. Le Guin, SEMPRE LA VALLE (Always Coming Home, 1985) traduzione di Riccardo Valla, con disegni di Margaret Chodos, 535 pagine, Mondadori 1986
Questo ponderoso volume apparso per Mondadori nel 1986 fuori collana, mai più ristampato, è una esperienza unica nell’opera della scrittrice nordamericana: costruito come un insieme di testi compositi, conteneva addirittura, anche nell’edizione italiana, una musicassetta con la riproduzione delle poesie e dei canti del popolo Kesh, attribuiti a una donna chiamata Little Bear Woman. L’intero volume ha la forma di una raccolta di documentazione apocrifa condotta da Pandora, forse antropologa e forse etnografa, su un popolo che abita la Terra in un futuro remoto, dopo il collasso tecnologico della civiltà:
«È una società matrilineare, matrilocale, matricentrica; la vita è il mondo, l’ambiente, il femminile, è dono, scambio, movimento da e verso il centro, la vita è riflessione, ma è anche vissuto che non si può spiegare in parole, è mistero, respiro, suono, luce, oscurità, silenzio. È il tutto. Una cultura che considera il perno, il centro e il simbolo dell’universo, del sé la doppia spirale, heyaya-if; ripetuta e ricopiata in mille forme, il significante e il significato. Una società che promuove la poesia, la musica, in cui lo studio è attività quotidiana per tutti, che considera la conoscenza la sola vera ricchezza, il cui tempo è scandito dalla danza, e che si muove nel ritmo quotidiano e concreto dell’esistente: coltiva, raccoglie, alleva, costruisce, distrugge, caccia, produce.»
(Maria Teresa Romiti, “Quella strana valle”, su Rivista Anarchica n. 145, aprile 1987)
Le storie dei Kesh si svolgono nella Napa Valley, tra Sacramento e la costa della California, in un paesaggio in parte sommerso dall’innalzamento del livello dei mari; l’unico residuo stabile della civiltà attuale è una rete di computer ancora funzionante, basata sull’energia solare. Benché esistano nella vicina città dei Condor elettricità e mezzi di trasporto come i treni, questo mondo futuro non si può definire una civiltà industriale; non esistono organizzazioni statali centralizzate, e lo sfruttamento delle risorse della natura è considerato un male da evitare.
La prima parte del libro è composta da vari frammenti di cultura Kesh, commentati da Pandora. Il testo più lungo è trascritto dalle parole di una donna di nome Stone Telling, un vero e proprio romanzo che occupa quasi un terzo della lunghezza totale del libro: si tratta del resoconto avventuroso della vita di una Kesh che, dopo aver vissuto nella città dei Condor, patriarcale e gerarchica, ne evade insieme alla figlia per tornare all’ambiente anarchico e più selvaggio della propria gioventù.
Tra gli altri testi di lunghezza minore ci sono le Otto storie di vita che inquadrano la civiltà Kesh. Il libro contiene anche alcune mappe della Napa Valley del futuro. Arricchisce il volume una ricca sezione che riproduce gli appunti etnografici di Pandora, per dare un’idea a tutto tondo dell’ambientazione; questo atipico lavoro dell’autrice potrebbe essere un omaggio al padre Alfred Louis Kroeber,famoso antropologo autore di un “Manuale degli Indiani di California” (Handbook of the Indians of California, 1925).
« Un libro che non può essere raccontato, che sfugge come il mondo che descrive: non un romanzo, men che meno di fantascienza, non un’utopia. Forse un saggio etnografico scritto sotto forma di poesia, un canto di speranza per l’umanità, il recupero di tutto ciò che abbiamo incontrato più e più volte e mai compreso, un viaggio impossibile e necessario “…un sogno fatto in un brutto momento, un “Al Diavolo!” rivolto a tutta la gente che gira sul fuori strada, fabbrica e prepara campi di concentramento, da parte di una casalinga matura, una critica del concetto che la civiltà sia solo per i paesi civili, un’affermazione che finge di essere un rifiuto, un bicchiere di latte per lo stomaco ulcerato dalla pioggia acida, un’esemplare di jeanjacqueria pacifista e una danza dei cannibali in mezzo ai selvaggi, nei giardini pagani dell’Ovest più remoto”.»
(Maria Teresa Romiti, ibid.)
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