Clelia Farris, I Vegumani, Future Fiction, 2022, pp. 154 euro 15,00 stampa, euro 5,00 ebook
Abbiamo più volte sottolineato, su questo sito oltre che in altri interventi, come la letteratura solarpunk italiana sia vivace e fertile per quanto riguarda le opere di lunghezza contenuta — racconti e romanzo brevi — e al tempo stesso sia ancora acerba nel campo del romanzo.
Francesco Verso è rimasto sino a questa estate l’unico autore a pubblicare un testo più lungo, diviso in due volumi: il romanzo I Camminatori (2015-16), edito dalla casa editrice che egli stesso dirige, Future Fiction, da tempo impegnata nella diffusione in Italia di quella nuova fantascienza internazionale, lontana dal “canone” della science fiction anglosassone, occidentale. Future Fiction pubblica testi di tradizioni fantascientifiche sinora considerate minori, “non autoctone:” storie di grande rilievo letterario e d’impegno culturale dall’Africa, dall’America Latina, dall’Asia, con particolare attenzione a India e Cina.
Ed ecco che finalmente in questa estate 2022, proprio Future Fiction dà alle stampe quello che viene pubblicizzato come “il secondo romanzo solarpunk italiano”, I Vegumani di Clelia Farris: decisamente più breve dei due volumi di Verso, appena 150 pagine, però le aspettative dei lettori sono alte, proprio per il nome dell’autrice.
In questi anni infatti Clelia Farris, nata a Cagliari nel 1967, laureata in psicologia, si è conquistata una nicchia di affezionati grazie alla qualità della sua scrittura, decisamente più curata, più raffinata, più efficace di quella della grande maggioranza di colleghi e colleghe della science fiction italiana. Nel fandom di fantascienza, la regola è essere presente a tutti i costi, in tutti i social, in ogni antologia e in più convention possibili; Farris si è invece conquistata una fama di riservatezza estrema, al punto che in un mondo in cui le immagini sono onnipresenti, non sembra possibile reperire una sua foto in rete — un aspetto che personalmente apprezzo oltremisura.
Forse non è un caso che alcuni particolari dell’idea forte sottostante I Vegumani ricordino quella de I Camminatori: dopo un lungo periodo di pubblicazioni con Delos Digital, negli ultimi anni Farris esce quasi esclusivamente con Future Fiction; eppure, potenziale lettore, potenziale lettrice, sbaglieresti se immaginassi uno sviluppo della medesima idea futuribile. Le due storie sono molto diverse per ambientazione, atmosfera, stile di scrittura e significato; l’aspetto che veramente hanno in comune è il solarpunk, la volontà di raccontare come l’umanità possa affrontare questo nuovo future shock che sta per caderci addosso: la crisi climatica, la disponibilità dell’energia, il controllo sociale, le diseguaglianze.
I Vegumani è ambientato in una Sardegna quasi irriconoscibile, oltre un secolo dopo il tempo in cui viviamo:
“Tutto aveva avuto inizio cento anni prima, quando la transizione ecologica si era rivelata insufficiente per far regredire il cambiamento climatico”
(pag. 112)
L’aumento della temperatura globale ha sconvolto il mondo, rendendo pressoché inabitabili le zone equatoriali e tropicali. Il Mediterraneo è ormai in una fascia climatica torrida, bruciato da un sole implacabile che inibisce la vita vegetale e animale; l’agricoltura è impraticabile, le terre desertiche e improduttive, l’acqua una risorsa preziosa e estremamente scarsa.
Niente di nuovo, verrebbe da pensare: uno scenario risaputo, non pochi romanzi del (sotto)genere post-apocalittico partono da premesse analoghe o simili; però I Vegumani non è un post-catastrofe, una di quelle opere che raccontano una regressione economica e sociale, in cui piccole comunità ostili un all’altra si combattono secondo il principio “mors tua, vita mea”.
Nella storia di Farris, comunità sempre più spopolate in Sardegna si organizzano per gestire energia e risorse, con la determinazione di non cedere. Cedere non significa estinguersi, come probabilmente avverrebbe in un post-apocalittico, bensì emigrare a Nord, dove ancora le temperature sono tollerabili e sono possibili attività come l’agricoltura. Non è precisato se questo Nord sia in Italia (improbabile) oppure nell’Europa settentrionale.
Secondo aspetto che differenzia questo bel romanzo dal filone catastrofico, è il fatto che non vi è una regressione tecnologica: i suoi protagonisti non sono umani impotenti in uno scenario ostile; utilizzano una tecnologia decisamente più avanzata della nostra, sfruttano l’acqua con un’efficienza che oggi neppure riusciamo a immaginare, hanno stampanti che riproducono libri a richiesta, su un tessuto speciale riciclabile, e sono in grado d’influenzare il clima su scala micro-locale.
I protagonisti sono soci lavoratori della cooperativa agricola Astarte, che è appunto un luogo di collaborazione, gestito secondo procedure partecipative e collettive; le attività ruotano intorno alla sua grande Serra, che permette una produzione alimentare di sussistenza a patto di mantenere una rigida separazione dal deserto ambiente esterno, ma assorbe un considerevole consumo di energia.
La cooperativa è situata nel territorio di un comune che amministra con oculatezza le risorse, che provengono anche da finanziamenti esterni. Le risorse sono infatti ripartite con una logica redistributiva da un’entità sovranazionale che non esercita la propria autorità con la violenza propria dello Stato; anzi, organizza il trasferimento volontario verso il nord per chiunque decida di rinunciare a vivere in questo regime di scarsità, a causa di una natura sempre più ostile.
Protagonista principale del romanzo è Nidosette Gazania (tutti i membri della Astarte hanno nomi di fiori), che oltre a lavorare nella Serra, svolge per interesse personale ricerche sulle proprietà delle cere vegetali; è infatti interessata a migliorare una crema protettiva per l’epidermide che lei stessa ha prodotto con ingredienti reperiti sul posto, nell’intento di aumentare la resistenza alla radiazione solare di chi lavora all’aperto:
“La nuova formula impedisce l’evaporazione rapida dei liquidi corporei e mette l’organismo nella condizione di conservare l’umidità interna.”
(pag. 109)
La sua crema, ben presto battezzata AmicaSole, ha però due effetti secondari: il primo, trascurabile, è il colorito verde che assume la cute; il secondo effetto invece potrebbe creare infiniti problemi, perché spinge l’organismo a comportarsi come un vegetale… Le conseguenze paventate da Gazania ricordano quelle cui giungono i protagonisti del romanzo di Francesco Verso:
“La crema poteva essere la soluzione a tutti i loro problemi. Se la gente si fosse radicata, gli agricoltori non avrebbero avuto bisogno della pioggia; le coltivazioni sarebbero state inutili, la nutrizione non sarebbe più passata per lo stomaco.”
(pag. 50)
Il percorso dei romanzi di Verso e di Farris è invece differente, sia perché distanti sono i problemi posti dall’ambientazione, sia perché la natura delle due idee futuribili è strutturalmente diversa.
Il conflitto narrativo in I Vegumani è molto forte, però l’autrice sceglie, secondo me a ragione, di non drammatizzarlo attraverso una trama avventurosa. Ci sono naturalmente scene chiave, twist, colpi di scena, sorprese e cambiamenti di rotta; eppure, un classico romanzo di fantascienza assumerebbe come centrale la mutazione genetica indotta da AmicaSole, tipico tópos sf, racconterebbe magari la nascita di una super-razza che grazie alla propria capacità di adattamento ri-colonizzerebbe tutte le fasce climatiche spopolate dall’aumento della temperatura globale.
Farris per fortuna costruisce un altro tipo di storia, che forse è indice di quanto la fantascienza di oggi sia maturata rispetto a stereotipi che con il tempo sono evoluti in direzione del kitsch — e questa maturazione è merito della consapevolezza solarpunk:
“Se ce ne andremo tutti, chi si prenderà cura di questa terra? Noi abbiamo dei doveri nei suoi confronti. Voi l’avete avvelenata, noi cerchiamo di guarirla.”
(pag. 51)
Dunque, nessun peana a un neo-colonialismo, a un nuovo sfruttamento del pianeta; il conflitto narrativo si indirizza sulle opposizioni resistenza/rinuncia, tradizione/novità, persino genitori/figli. Chi ha ragione? Chi ha torto? Qual è la via giusta per la sopravvivenza? Come tutte le migliori utopie, anche I Vegumani contiene una sana dose di ambiguità; l’utopia non è la risposta, bensì una domanda tra tante:
“Gli esseri umani si sono sempre spostati,” replicò Parmenide facendo spallucce. “Siamo venuti dall’Africa, milioni di anni fa, e ora saliamo solo un po’ più a nord.”
(pag. 108)
“Gli esseri umani si prendono cura di se stessi e del proprio ambiente,” ribatté Gazania sollevando la voce. “Siamo tutt’uno. E se l’ambiente sta male, interveniamo per aiutarlo. Gli esseri umani non scappano. Questa aridità, questo caldo, fanno parte di noi, siamo noi. Non possiamo strapparceli di dosso come se fossero indumenti scomodi.”
ATTENZIONE SPOILER
Di solito non mi curo di quel concetto assurdo che si definisce con una brutta parola inglese, spoiler, per il quale la letteratura sarebbe la storia in sé, e non il modo in cui viene raccontata. Condivido l’ovvietà di non rivelare chi è l’assassino a chi si accinge a leggere una storia gialla, ma estremizzando il concetto non avrei dovuto leggere Il Maestro e Margherita di Bulgakov dal momento che so come è stato ucciso Gesù Cristo. A ogni modo, questo inutile pregiudizio è ormai abbastanza radicato, per cui segnalo che chi non vuole leggere oltre, si fermi qui.
Con il progredire della trama, il conflitto protagonista/ambiente si personalizza e trasforma in genitori/figli e, con un twist a sorpresa, in una contrapposizione narrativa tra due personaggi, cioè tra Gazania e la burbera Nonna; quest’ultima appare fino dal prologo, sembra un elemento di puro folclore, per dare spessore all’ambientazione — invece la sua funzione segreta viene intuita da Gazania (e di conseguenza rivelata al lettore) solo nel capitolo intitolato Il Mondo nuovo, che non è l’ultimo: altri due capitoli seguono, quindi non si può interpretare come la risoluzione del conflitto principale, che nel frattempo si è consolidato sull’opposizione Gazania/Amaryllis, bensì come un conflitto segreto che viene voglia di evidenziare con il quadrato semiotico di Algirdas Greimas.
Il quadrato semiotico è una derivazione dal quadrato delle opposizioni di Aristotele, che pone ai vertici superiori di un poligono due termini contrari uno all’altro, a sinistra l’essere, a destra il sembrare; mettiamo in alto a sinistra il personaggio Nonna e in quello a destra il suo ruolo di Allibratrice, perché accetta scommesse su qualsiasi aspetto della vita alla Astarte.
I due termini sono legati da connessioni di contraddizione (in diagonale) con i vertici inferiori del quadrato, in basso a sinistra non sembrare e in basso a destra non essere. Il quadrato semiotico applicato a questo aspetto de I Vegumani rivela che la Nonna è sì un’Allibratrice che accetta scommesse a favore dell’emigrazione, ma non è anti-permanenza; in realtà (ambito del Segreto, a sinistra) è una famosa biologa, la reale ideatrice della formula dell’AmicaSole.
Sui due lati del Quadrato appaiono relazioni subalterne tra i quattro termini, presi a due a due in verticale. Si legga infine il quadrato con l’interpretazione delle funzioni date da Greimas: nell’ambito del Segreto (sinistra verticale), «la Nonna è una famosa biologa», in quello della Menzogna (destra verticale), «l’Allibratrice non è anti-permanenza», ovviamente nel Falso (orizzontale inferiore) «la biologa è anti-permanenza», infine nel vero (orizzontale superiore) «la Nonna è un’Allibratrice».
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