di Matteo Scarfò

Vorremmo presentare due articoli che riassumono due visioni che potrebbero sembrare contrastanti tra loro: nel primo l’avventura mai realizzata del fisico Gerard O’Neill, professore a Princeton, che negli anni ’60 ha teorizzato la vita nello spazio tramite la creazione di un vero e proprio habitat chiamato Cilindro di O’Neill. Nel secondo invece prenderemo in esame la città utopica dell’architetto italiano Paolo Soleri, costruita solo in parte in Arizona.
È vero che entrambe fanno parte di un’utopia molto novecentesca che mette l’uomo sempre al primo posto, al vertice di ogni bisogno e spesso, con avventatezza, anche al di sopra del ritmo naturale del pianeta. È anche vero però che grazie a questi studi  forse si potrebbero gettare le basi per uno sviluppo migliore, di modo che la scienza possa progredire nel rispetto delle leggi naturali.
Il cilindro di O’Neill prevedeva un habitat al di fuori del pianeta. Il fisico chiese ai suoi studenti di immaginarlo in via puramente teorica pensando però all’uso di energie  e materiali rinnovabili. Anche per i rifornimenti della popolazione, chiese di immaginare  l’uso di colture nello spazio. Sono elementi, come sappiamo, che si potrebbero adattare sulla Terra per avere aree abitabili di grandi dimensioni che siano allo stesso tempo ecosostenibili.
L’architetto e urbanista italiano Soleri invece immaginò la sua città in modo da essere indipendente per l’energia e il cibo da approvvigionamenti esterni, Soleri era convinto di poter arrivare a una completa autosufficienza sempre nel rispetto dell’ambiente.
Vorremmo quindi aprire uno sguardo su queste due dimensioni, per ora utopiche, del passato, quando si pensò al futuro, al nostro futuro, dimostrando che una via “solare” al progresso esiste ed è progettabile.

Matteo Scarfò

Parte I: il cilindro di O’Neill

Dovremmo forse dire le città ideali, quelle che da qualche parte, nella mente di alcuni autori, architetti, scrittori, registi, fumettisti, visionari di ogni tipo, sono esistite e sono state popolate in un mondo migliore. Alcuni di questi progetti, però, sono stati presi in considerazione realmente. Questo primo approfondimento riguarda lo studio fatto dalla NASA negli anni ’70 per progettare colonie spaziali in vista di una futura conquista dello spazio e conclusosi negli anni ’80 con il progressivo abbandono delle missioni con equipaggio nello spazio (a parte la missione Stazione Spaziale Internazionale che durerà fino al 2016).

Nel 1969 Gerard O’Neill, professore di fisica alla Princeton University, fece una richiesta che agli studenti di quell’anno non dovette sembrare poi così bizzarra come potrebbe apparirci oggi: chiese loro di aiutarlo a progettare titanici centri abitativi nello spazio, ovvero delle città colonie auto-sussistenti orbitanti fuori dalla sfera terrestre. Il 20 luglio del ’69, Neil Armstrong aveva piantato i piedi sul suolo lunare, inaugurando una stagione di ottimismo euforico intorno ai progetti di conquista dello spazio profondo che si sarebbe conclusa solo pochi anni dopo con l’ordine di Nixon di virare tutti gli sforzi verso la creazione dello Space Shuttle anziché verso la scoperta di altri pianeti. Erano tempi di incertezza economica e il Presidente degli Stati Uniti ritenne più sicuro progettare una macchina che rimanesse intorno al pianeta.

Tornando a O’Neill, in quell’aula di Princeton il professore spiazzò tutti con una semplice domanda: “siete certi che la superficie di un pianeta sia davvero il posto migliore per una civiltà tecnologica in espansione?”. La ricerca dei suoi studenti si orientò verso il no. Il risultato dei suoi sforzi fu pubblicato nel settembre del 1974 su Phisics Today: il fisico afferma che la conquista dello spazio è possibile per l’umanità di questo periodo storico; nell’arco di un centinaio di anni, si legge, si potrebbe impiantare una nuova attività industriale al di fuori della sfera terrestre (“if work is begun soon, nearly all our industrial activity could be moved away from Earth’s fragile biosphere within less than a century from now”[1]), ma soprattutto “the technical imperatives of this kind of migration of people and industry into space are likely to encourage self-sufficiency, small-scale governmental units, cultural diversity and a high degree of independence”[2], afferma insomma che un tipo di missione come questa avrebbe favorito l’autosufficienza, la formazione di unità governative su piccola scala (molto più efficienti delle enormi macchine centrali di potere di centri urbani sempre più immensi), la diversità culturale e un elevato grado di indipendenza.

Interno del Cilindro di O’Neill, dal sito della NASA

Questo è probabilmente il punto più importante, perché nella visione di O’Neill progresso scientifico in ambito spaziale e trasformazione positiva della società avanzano di pari passo. Purtroppo da allora le cose non sono andate esattamente come molti immaginavano, anche se il progresso in campo spaziale nonostante i tagli è rimasto molto attivo, missioni di enorme portata storica e scientifica come le varie missioni robotiche su Marte potrebbero aprire la strada a una nuova esplorazione: così com’è stato più di cinquanta anni fa per la Luna, ma stavolta verso Marte.

È importante sottolineare come O’Neill specifichi che non sta parlando di visioni allucinate, il suo obiettivo è lanciare una proposta concreta, anche se non di rapida attualizzazione, per costruire uno spazio vitale di alta qualità al di fuori della biosfera per una popolazione mondiale che aumenta a dismisura, che non riesce a imporsi fonti di energia pulita e che consuma a ritmi spaventosi le risorse del pianeta. Sottolinea infatti che il progetto è realizzabile con le conoscenze e con le risorse che già possediamo.

Bisogna infatti pensare a ciò che ancora è da inventare e da scoprire come a uno stimolo e non come a un freno, fa parte dell’empirismo su cui si è mossa la scienza moderna, d’altronde anche per provare la meccanica quantistica serve un’esperienza che provi che possono esistere leggi fisiche contro-intuitive. L’idea di O’Neill è di trattare la sconfinata regione oltre la Terra non come un vuoto, ma come mezzo di coltura, ricco di materia e di energia. Per vivere normalmente, le persone hanno bisogno di energia, aria, acqua, terra e gravità. Nello spazio, l’energia solare è affidabile, la Luna in grado di fornire i materiali necessari (oltre a essere una piattaforma di sosta e rifornimento), e l’accelerazione rotazionale può sostituire la gravità terrestre. D’altronde per garantire la vita umana nello spazio ciò che è veramente essenziale è la biodiversità, ovvero la presenza nello stesso habitat di forme viventi geneticamente differenti, dai microrganismi ai vegetali, solo così si potrà avviare una terraformazione, ossia il processo artificiale di adattamento di un luogo (naturale o artificiale) alle condizioni di vita umane, che si ottiene intervenendo chimicamente nell’atmosfera in modo da ottenere la formazione di un ecosistema.

Recentemente il tema è stato anche oggetto di studio dell’antropologo John Moore, che ha trattato il modello di espansione nello spazio in colonie in relazione alla crescita demografica terrestre in un saggio pubblicato dalla NASA, Interstellar Travel and Multi-Generational Space Ships. Chi volesse approfondire i temi della ricerca sulla colonizzazione può arricchirsi con The High Frontier: Human Colonies in Space,  il testo in cui O’Neill descrive i particolari del suo ambizioso progetto. Fu pubblicato nel 1976, all’apice della “fama” dello scienziato, e tradotto anche in italiano (Colonie umane nello spazio, Arnoldo Mondadori Editore, 1979, pp. 334).

Un progetto simile a quello di O’Neill si chiama Toro di Stanford, un altro progetto di colonia nello spazio sviluppato dalla NASA e dall’Università di Stanford nel 1975. Anch’esso prevedeva l’uso della forza centrifuga per simulare una gravità simile a quella terrestre e la residenza fissa di una comunità di circa diecimila persone. Ovviamente è presente in svariate storie fantascientifiche. Gli scrittori della fantascienza sapevano bene di cosa stavano parlando, non è un caso che molti di essi avessero enormi conoscenze scientifiche (Isaac Asimov) o che collaborassero con gli enti spaziali (David Brin) o che abbiano scrupolosamente lavorato sui dettagli delle loro storie (Arthur C. Clarke).

Citiamo Clarke non a caso. O’Neill aveva in effetti intrapreso esperimenti per constatare la fattibilità di una vita al di fuori della Terra.

Il progetto, conosciuto come Isola 3, consisteva di due cilindri in contro rotazione, lunghi 30 km e con un raggio di 3 km. La superficie interna di ogni cilindro era divisa in sei strisce di area uguale che correvano lungo la lunghezza del cilindro, tre erano “finestre”, tre erano “terra”. Inoltre un anello agricolo esterno del raggio di 15 km, come mostrato nella figura a destra, ruotava a velocità diverse per potervi praticare l’agricoltura. Il blocco industriale era localizzato nel centro (dietro il disco satellitare) per poter sfruttare la gravità ridotta nei processi produttivi. I cilindri ruotano per fornire una forza di gravità simulata dalla forza centrifuga sulla superficie interna…

da Wikipedia

Vi ricorda qualcosa? Crediamo di sì: uno dei più famosi romanzi di Arthur C. Clarke, un vero capolavoro di vera fantascienza, Incontro con Rama. Nel romanzo del 1972 si narra della scoperta e dell’esplorazione da parte di un gruppo di astronauti di un colossale cilindro costruito per replicare la vita e l’attività di un pianeta naturale. Il suo contributo riguarda anche l’uso dell’orbita geostazionaria per i satelliti delle telecomunicazioni e la previsione, fatta nel ’74, sui computer connessi in una rete globale e presenti in ogni casa negli anni Duemila.

Interpretazione artistica del cilindro di O’Neill in “Un nuovo inizio” di Ben Rooker, Portland (USA)

Clarke e O’Neill purtroppo hanno lasciato questo mondo da qualche tempo, il primo nel 2008, il secondo nel 1992, stroncato da una leucemia a 65 anni. Poco prima di morire stava lavorando a un progetto per treni che avrebbero sfruttato l’energia elettromagnetica per garantire l’alta velocità. Come ultimo omaggio, le sue ceneri sono state spedite fuori dall’orbita terrestre il 21 aprile 1997. Le loro menti hanno fatto in tempo a lasciarci un contributo su cui c’è ancora tantissimo da riflettere, forse non tutte le idee erano perfette e forse non vedremo mai nel corso delle nostre vite le città spaziali di Gerard O’Neill, ma di certo queste persone ci hanno insegnato come portare avanti una prospettiva che appartenga a tutti, una visione di respiro ampio che non fosse personale, ma che al contrario potesse coinvolgere tutta la nostra specie. Tutto questo semplicemente credendoci strenuamente, combattendo contro ostacoli che sembravano e sembrano insormontabili.

Buon viaggio signor O’Neill, buon viaggio signor Clarke.

Matteo Scarfò

1 – continua


Note

[1] “se i lavori inizieranno presto, quasi tutte le nostre attività industriali potrebbero essere allontanate dalla fragile biosfera terrestre entro meno di un secolo da adesso”

[2] “gli imperativi tecnici di questo tipo di migrazione di persone e industrie nello spazio incoraggeranno probabilmente l’autosufficienza, unità statali su piccola scala, la diversità culturale e un alto grado di indipendenza”

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