Esiste nel mondo sostenibile una cura per gli Svuotati, i superstiti del tardo-capitalismo?

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Anna e Claudio, psicologi di un’Articolazione, comunità umana autosufficiente, chiedono espressamente ai Gangli centrali un’ispezione straordinaria: ricevono così la visita dell’altera, scostante Armida Lucci. Le mostrano le coltivazioni, i laboratori di produzione della carne sintetica, gli stabilimenti per il recupero di animali “umanizzati” da decenni di incurante sfruttamento. Finalmente arrivano al dunque: in un padiglione-clinica sono ospitati pazienti umani non più giovani, sopravvissuti all’innesto del biochip di YAGR, uno streaming pubblicizzato come l’ultima frontiera dell’intrattenimento e dell’informazione, “una esperienza sensoriale mai provata prima”. Ma poco per volta YAGR prendeva il controllo totale della mente, riducendo le persone a larve incapaci di tornare alla vita reale. Armida è giustamente scettica: come possono gli psicobiologi di un’Articolazione ottenere ciò che non è riuscito ai Gangli? E l’anonima degente in coma ribattezzata Una Falena, cosa prova nella sua spaventosa prigione mentale, sottoposta a stimoli di dolore fisico con i quali Anna è convinta di salvarla? Quando riaprirà gli occhi, sarà libera oppure svuotata?

Civiltà post-industriale, politica, rappresentanza, medicina e terapia in un romanzo breve di Milena Debenedetti
L’autrice

Milena Debenedetti savonese, è laureata in chimica, ha lavorato per quasi vent’anni come ricercatrice in una industria fotografica, e si occupa ora di redazione testi e collaborazione con siti Internet e giornali locali, nonché delle sue grandi passioni: scrivere e coltivare l’orto. È sposata e ha una figlia. Si occupa anche di politica: dal 2011 è consigliere comunale nella sua città.

Da sempre appassionata di fantascienza e fantastico, oltre che di fumetti, musica rock, cinema, è arrivata spesso in finale con i suoi racconti in vari premi letterari, come il Courmayeur, di cui ha vinto nel 1996 la sezione fantasy, il Cristalli Sognanti, vinto nel 2000, l’Alien, il Lovecraft, il Premio Italia, il Galassia città di Piacenza, vinto nel 2005. Ha pubblicato racconti in antologie edite da Keltia editrice, Garden, Delos Books, Flaccovio, sulle riviste Alia di Libri Nuovi, Strane Storie della Pavesio e su diversi siti internet. Un suo romanzo di fantascienza è arrivato due volte in finale al Premio Urania. Nel 2006 ha pubblicato con Delos Books il romanzo Il Dominio della Regola, vincitore nel 2007 del Premio Italia come miglior romanzo fantasy dell’anno, e due anni dopo il seguito, I maghi degli elementi.


L’incipit

Posso dire, in tutta certezza, di conoscere il piccolo dolore quotidiano. È diverso dalla grande sofferenza, dai lutti e dalle tragiche asperità dell’esistenza.
No. Quelli sono sopportabili. Comprensibili. Ho avuto la mia parte come tutti, e non fatico ad accettarli con rassegnazione, non mi sento diversa o sfortunata per questo.
Il piccolo dolore quotidiano è diverso: insinuante, onnipresente, a volte fatto di lontana e velata malinconia, persino un po’ dolce nella sua veste di rimpianto, ma più spesso opprimente come un cappotto pesante sulle spalle in piena estate, mentre ti guardano tutti. Quello che non ti lascia mai, che non ha bisogno di troppi pretesti, che ti ricorda costantemente la tua misera condizione.
Si nutre di minime umiliazioni, di goffaggini, di gesti sgarbati o asprezza altrui, quando non te l’aspetteresti. Ti perseguita, ti segue, ti mormora nelle orecchie e infila piccoli spilli nel cuore, a tradimento. Attende che tu ti apra, che sia distratta, che abbassi le difese. E io non sono mai stata brava a crearmi una corazza.
Ecco, io ne ho avuto e ne avevo abbastanza di questo dolore, di questo sottofondo amaro capace di rovinare qualunque dolcezza, conosciuto sin da piccola e fedele compagno di vita, arrivato ormai a sopraffare e precedere qualunque cosa, in una bilancia sempre più pendente dalla parte sbagliata.
Ne avevo abbastanza.
Ho cercato di lottare. Ho cercato di incanalarlo in ispirazione per le mie poesie, di esorcizzarlo, di trasformarlo in qualcosa di positivo. Alla lunga non ha funzionato, è stato solo una sorta di calmante sempre meno efficace.
Anche adesso lo percepisco. Nulla lo può mitigare o far dimenticare. Anche ora i piccoli sgradevoli ricordi bussano incessanti e vividi. Gli insulti di qualche passante, un inciampo, una caduta. Quella volta che da bambina ho vomitato a tavola, di fronte a ospiti di riguardo. La volta che non sono stata all’altezza. Che ho balbettato scuse. La compassione di un’amica, il sarcasmo di un’altra. La prepotenza dei ragazzi. La volta che mi hanno ferita ingiustamente e non ho trovato parole per difendermi. I piccoli malesseri. Le paure. I brutti vestiti, il fisico sgraziato di cui non mi sono mai sentita del tutto padrona.
Inadeguata. Degna solo del mio stesso disprezzo. Ecco il bollino, il sigillo da dare alla mia vita insulsa, al mio viso scipito da annebbiare gli specchi, e ora alla vecchiaia rugosa che bussa implacabile con fitte di riconoscimento a ogni passo. Da non avere più alcun pensiero, se non sperare che finisca, immaginare il sollievo del buio senza ritorno. Il male di vivere, così lo ha chiamato un poeta. E io sono una ammalata cronica, in peggioramento.
Ma non c’è tempo per pensare. Il vento freddo e secco mi sciabola il viso, contorce e arruffa i capelli. È questa l’unica vita che può distrarmi.

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