Nello scorso mese di settembre la redazione di Solarpunk Italia è stata contattata da Serena Marchio, studentessa della laurea magistrale in lingue presso l’università digitale Guglielmo Marconi. In preparazione della tesi di laurea con il relatore  prof. Domenico Morreale, docente di sociologia dei processi culturali, abbiamo risposto a alcune domande sul fandom di fantascienza, sulla sua diffusione e su come venga studiato in chiave identitaria e partecipativa.

Hanno risposto alle domande Giulia Abbate e Franco Ricciardiello
Re-immaginare, di Yuumei (da Deviantart)

Parte 1 – Giulia Abbate

[Serena Marchio]: Il mio lavoro di tesi verte sul fandom e su come questo fenomeno, all’interno di un contesto convergente, possa essere in grado di aiutare la costruzione identitaria, sia del soggetto che della comunità stessa.

  • Partiamo da una domanda semplice e forse banale, cos’è per lei il solarpunk? Come si è avvicinata a questo genere?

Mi sono avvicinata al solarpunk grazie alla proposta di Franco Ricciardiello di lavorare su un racconto, e contestualmente (interessante sincronia), perché la scrittrice Romina Braggion mi ha coinvolta in un lavoro di ricerca sul tema, richiesto da Antonia Santopietro, direttrice della rivista ZEST – Letteratura Sostenibile.

Studiando il solarpunk, mi sono accorta che è più di un genere letterario, è piuttosto un movimento di pensiero che risponde alle mie convinzioni più profonde e mi ha dato modo persino di capirle meglio.

Il solarpunk è un movimento anticapitalista, anarchico, inclusivo, queer, antispecista, nativista, localista, utopista radicale. È foriero di una nuova possibilità di ecologia-mondo che soppianti quella capitalista. È passibile di sviluppare rivoluzioni allegre e una nuova concezione del vivere che comporti azione, attivismo, relazione, spiritualità, lotta.

  • Secondo lei è possibile da attivista, o comunque persona che si interessa all’ambiente, ai cambiamenti climatici, a determinati movimenti socio-politici, diventare fan solarpunk? Ha mai avuto testimonianze di questo switch?

Ne ho avute molte, sì. Io stessa potrei considerarmi tale. Sono attivista indipendente da quando ho undici anni, nel senso che ho inziato allora a condurre azioni anche in completa solitudine, oppure in movimenti diversi tra loro, per ciò che credevo giusto e per ciò che volevo cambiare. Prima di conoscere il solarpunk ho scritto di semi, di popolazioni native, di colonialismo culturale, di femminismo, di migrazioni, di decrescita, di medicine alternative. Il solarpunk mi permette di farlo in modo più strutturato, in un momento in cui sento di aver bisogno di una struttura. E per restare in tema con la tesi presente, il solarpunk mi permette di trovare persone con visioni e volontà radicali simili alle mie, di costruire comunità aperte e varie ma accomunate dall’idea che un altro mondo è necessario, è possibile, e che dobbiamo costruirlo attraverso la pratica della nostra stessa esistenza.

  • In che modo il solarpunk è (o potrebbe essere) convergente e partecipativo? Magari potrebbe essere un “elemento” transmediale, questo è mai stato considerato?

Il solarpunk nasce esattamente così: transmediale, partecipativo, collettivo, concepito come in divenire e soprattutto strettamente legato alla pratica comunitaria e all’attivismo.

A dire il vero, è anche possibile scrivere solarpunk senza praticarlo: alcuni autori e autrici si regolano così, partecipando esclusivamente a discussioni letterarie e circoscritte alle loro specifiche produzioni, o astenendosi dall’esprimersi politicamente.

Per quanto mi riguarda, questa strada non mi interessa e trovo i contributi di questo tipo magari interessanti dal punto di vista letterario, ma irrilevanti per ciò che concerne il solarpunk per come lo vedo io.

  • Solarpunk Italia ha profili molto attivi su tutti social, è quindi una comunità attiva nella quale è possibile interagire? Secondo Lei come si potrebbe incentivare l’interazione e la partecipazione nella comunità?

Solarpunk Italia è stata fondata da quattro persone che si sono trovate in sintonia tra loro e con gli ideali solarpunk (che come già detto sono ideali già esistenti, solo raccolti e sistematizzati in questo nuovo modo). Sin da subito, la collettiva è stata aperta al contributo esterno, alle richieste di contatto, alle proposte di collaborazione, alle interlocuzioni. Negli spazi social fioriscono spesso confronti che vengono accolti per come sono e mai censurati – finora, almeno: abbiamo avuto anche attacchi ad personam, ma finché sono rivolti a noi non ci turbano; bloccheremmo tuttavia incitamenti all’odio, trollate o insulti ad altrə.

Per aiutare e magari ampliare la comunità, ho alcune idee che voglio prima discutere con la collettiva, e che per il momento restano quindi riservate: posso dire che riguardano la gestione dei contenuti e il modo di proporli. Non penso che si possa o si debba “convincere” nessuno, né suscitare una partecipazione in modo artefatto o con stratagemmi da clickbait: se una comunità esiste, che si sviluppi in modo spontaneo, naturale, autonormato.

Quello che possiamo fare è farci trovare da chi potrebbe volerci cercare, dunque mantenere alta l’inclusività e l’accoglienza, essere sensibili e apertə alle possibilità di cambiamento portate da chi arriverà. Su questo si può fare sempre qualcosa in più, e bisogna mantenersi calmə, sensibili, comprensivə, pur senza derogare ai principi di base.

  • Il fan solarpunk potrebbe essere l’incarnazione del prosumer di McLuhan?

Sì, potrebbe, ma non nel contesto commerciale. Il concetto di generare un valore da ciò che si fa, e di scambiare e incrementare valore in un circuito comunitario, esiste. Se il “prosuming” è inteso invece come personalizzazione/customizzazione di prodotti creati dalle industrie, che con questa customizzazione ottengono di estrarre ulteriore valore dalla merce attraverso la collaborazione dei consumatori, bè, a mio modesto avviso si tratta dell’ennesima trappola del capitalismo, una “apertura di frontiera” che è opportuno chiudere e non assecondare in nessun modo se non vogliamo sprofondare ancora di più nei problemi che già ci affliggono.

  • Chi è fan ha una passione fondamentalmente, quanto conta la passione nella creazione di un’identità? Il solarpunk può essere considerato come elemento di costruzione identitaria secondo lei? (identità sia come identità di genere e come identità di comunità, come appartenenza al collettivo in cui si crede e ci si identifica, abbracciare in toto i valori che trasmette un fandom o un contenuto).

Certamente, la passione per qualcosa contribuisce al formarsi dell’identità personale; e il trovarsi in una comunità è un cemento per l’identità.

Il concetto di “appartenenza” mi piace meno, mi suscita inquietudine, perché a mio avviso l’identità è un processo in divenire: “legarsi”, voler “appartenere”, sclerotizza un’idea di sé che almeno per quanto mi riguarda vorrei che fosse sempre sfumata, aperta, cangiante.  

  • Secondo lei si potrebbe abbinare o associare il solarpunk all’ecopedagogia e quindi educare alla conoscenza dell’ambiente?

Secondo me sì. Il solarpunk (che nasce in Brasile, come l’ecopedagogia) ha molto da imparare studiando Paulo Freire, e anche ragionando su quello che già in passato ho definito “il soggetto radicale”, la persona neonata e poi bambina. È qui che si gioca tanto, tantissimo della società che verrà, come dimostrano anche studi e pratiche di pedagogiste come Maria Montessori, Elinor Goldschmied, Grazia Honegger Fresco, o ginecologi militanti come Michel Odent e Frédéric Leboyer.

“Educare” però non significa “insegnare”: si insegna il merito (ovvero si trasmette una conoscenza in una cornice valoriale che non è mai neutrale), si educa al metodo. Si può insegnare il rispetto dell’ambiente e di alcuni valori, ma educare significa permettere alla persona di sviluppare la propria interiorità in modo che possa mettere in discussione qualsiasi insegnamento, con strumenti intellettuali, ma in primis con la certezza di esistere e di valere qualcosa (è qui che la pedagogia è cruciale!), e conseguentemente costruendosi le proprie convinzioni in modo ragionato, rispettoso dell’Altrə, ma anche libero e autonomo.

Il solarpunk in questo può portare l’attenzione alla soggettività diversa da quella dominante/normata/normalizzatrice; e certamente la ricchezza e il coraggio dell’anarchismo.

  • Da un primo approccio il solarpunk sembrerebbe solo il racconto di utopie dell’ecologismo o climate fiction, ma è anche vicinanza a tematiche come la solidarietà tra esseri umani e ai movimenti gender friendly, volendo generalizzare; in che modo potrebbe contribuire a sensibilizzare su determinate tematiche?

Non “insegnando”, appunto. Piuttosto aprendo immaginari e suscitando non solo riflessioni, ma anche sogni,  desideri, volizioni, reazioni, azioni autonome. Scrivendo belle storie che questionino, discutano, ribaltino, aprano, spacchino, deridano e spernacchino i paradigmi dominanti, le narrazioni ufficiali, le egemonie culturali, le voci strombazzanti dei padroni e del potere. Storie che siano scritte bene, che emozionino, che facciano viaggiare l’immaginazione, che divertano… che suggeriscano non solo che un altro mondo è possibile, ma che mille altri mondi esistono già, che abbiamo il diritto di immaginare il nostro, e che possiamo costruirne collettivamente di nuovi, dove non ci sia bisogno di schiacciare quelli dellə altrə.

Continua con le risposte di Franco Ricciardiello
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