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di Antonio Ippolito
John Brunner, “Tutti a Zanzibar” (Stand on Zanzibar, 1968), Editrice Nord 1977. L’edizione più recente è in Urania, Le grandi saghe n. 6, Mondadori 2008

Quando ero alle elementari, ormai diversi decenni fa e quindi in epoca non petalosa, il mio sussidiario proponeva un’amena lettura dove si asseriva che l’intera umanità avrebbe potuto essere impacchettata in un “semplice” cubo di mille metri per lato (allora il genere umano contava metà dei componenti di oggi); e che questo cubo avrebbe potuto essere appoggiato sull’orlo del Grand Canyon, senza che nemmeno si avvicinasse al lato opposto; e se fosse stato messoe ben in equilibrio sull’orlo, sarebbe poi bastato che un cane curioso cercasse di sollevarlo per vedere cosa c’era sotto, per sbilanciarlo: e addio umanità.

Si vede che all’inizio degli anni ’70 si cercava di razionalizzare la paura della sovrappopolazione, che era stata scatenata nel corso dei ’60, dacché la diffusione di igiene, vaccinazioni e “Rivoluzione Verde” ebbe portato l’umanità al suo più drastico aumento mai registrato. Nel 1968, The population Bomb di Paul Ehrlich avrebbe raccolto le previsioni più catastrofiche; ma già nel ’66 Harry Harrison aveva scritto Make room! Make room! (Largo! Largo!, Editrice Nord 1972).

Ecco: se vi interessa un romanzo che illustri didascalicamente la paura della sovrappopolazione, Harrison è perfetto. Nella sua avvincente trama poliziesca trovano spazio tutti i dettagli di una vita quotidiana resa infernale dall’affollamento: dalle squadre di forzati che eliminano l’asfalto dalle strade per recuperare terreno da destinare all’agricoltura, al Soylent Green, insipida pappetta di alghe di cui i più sono costretti a nutrirsi (diventerà qualcosa di più macabro nell’omonimo film, da noi 2022: I sopravvissuti). Considerando però che, almeno in Europa, il problema della sovrappopolazione è diventato meno urgente a causa del crollo delle nascite (anche se rimane nel resto del mondo), il romanzo di Harrison può sembrare oggi un affascinante reperto d’epoca.

Brunner no. Uscito nel ’68, il primo romanzo della sua tetralogia sperimentale, scritto dopo molti romanzi di minore impegno, è noto per essere dedicato alla sovrappopolazione, è vero; mentre il successivo The sheep look up (Il gregge alza la testa, Editrice Nord, 1975) parla dell’inquinamento. Il curioso titolo deriva da un equivalente dell’apologo del mio sussidiario: tutta l’umanità potrebbe stare sull’isola di Zanzibar, oggi, ma i prossimi che nasceranno dovranno già stare in acqua.

Ma in realtà questo è un “romanzo totale”, dove Brunner impiega a fondo tutte le innovazioni delle avanguardie narrative e della new wave, oltre che un talento multiforme, per farci vivere questa società per così dire dall’interno della mente, e non dall’esterno come fa Harrison. A Brunner non interessa descrivere semplicemente gli effetti grotteschi della sovrappopolazione: vuole farci ragionare come le persone che l’hanno creata; perché alla sovrappopolazione si è arrivati attraverso una mentalità, quella della società del benessere consumista e permissiva, vagheggiata negli anni ’60 e finalmente realizzata: tra elusione della leva militare, spinelli onnipresenti, omosessualità più che tollerata, visto che dopo tutto non porta alla procreazione (chi se la passa peggio sono proprio le donne, che tranne rari casi di gelide imprenditrici oppure fanatiche religiose, sono delle specie di oggetti di piacere a disposizione dell’uomo disposto a ospitarle. Una degenerazione che torna anche in altri romanzi dell’epoca, e che andrebbe capita meglio).

La struttura narrativa è esplosa in brani dal brevissimo alle venti pagine, appartenenti a quattro diverse tipologie: “Sequenza” (continuità) è la trama principale, formata in realtà dalle vicende dei due protagonisti, il nero Norman House e il WASP Donald Lodge, che iniziano unite, si separano, per riallacciarsi alla fine; “Primi piani (tracking with close-ups) è una serie di sottotrame secondarie, slegate dalla principale, che dànno un’idea più ampia dell’umanità, anche se intrise di umorismo nero;  “Ultimissime” (The real world) è formata da estratti da giornali, saggi, telegiornali, pubblicità, canzonette popolari, listati di elaboratore… ricostruiti con eccezionale acume linguistico (probabilmente con il contributo della moglie, pubblicitaria); “Contesto” (context) dà informazioni più in profondità, spesso presentate come estratti dalle opere di tale Chad Mulligan, sociologo e massmediologo ispirato a Marshall McLuhan (questo immaginario sociologo, radicale e irriverente, è anche un irresistibile personaggio del libro, e con la sua satira abrasiva rappresenta probabilmente la voce dell’autore).

Ampia è anche l’ambientazione: non più un romanzo americanocentrico (John Brunner è inglese), ma diviso su più continenti a mostrare l’intreccio della politica mondiale di quegli anni, proiettata nel 2010 (anno in cui è ambientato): con l’Africa che cerca un suo modello di sviluppo, l’Asia non-allineata che ha già il suo, rappresentato dalla repubblica di Yatakang (trasposizione dell’Indonesia di Sukarno, se non ci fosse stato il massacro dei suoi sostenitori proprio poco dopo l’uscita del libro), la Cina che è tornata a essere una potenza e riesce a orchestrare terrorismo dentro gli stessi USA.

Infine, il linguaggio. Sulla scia di Arancia meccanica di Anthony Burgess (1962), pur senza arrivare a quella ricostruzione del linguaggio, Brunner fa parlare ai suoi personaggi un inglese “del futuro”, pieno di termini colloquiali inventati (“codder” per un tizio, “shiggy” per una delle onnipresenti e disponibili ragazze, “bleeder” come insulto generico, legato forse alle malattie ereditarie, ossessione di questa nuova società; “hole” che sostituisce “hell” in tutte le esclamazioni), di termini un po’ infantili che gli americani amano usare al posto di semplici sigle (le 4 am o 5 pm diventano “anti-materia” e “mamma-papà”); e infine i neologismi per tutti i “gimmicks” degni della miglior tradizione fantascientifica, dalle “gonnacamicie” alla “Karamano” (un rinforzo per le mani che le rende indistruttibili come quelle di un provetto karateka). Non mancano i dettagli concreti su questo futuro sovraffollato, come i vestiti di carta e gli orari in cui i senzatetto possono fare a turno nel dormire per strada; ma Brunner è più interessato a tematiche ballardiane: come analizzare gli effetti della pressione sociale sugli individui (con una significativa spiegazione del perché gli internati in manicomio, che alla fine potremmo anche essere noi un giorno, finiscano con l’imbrattare le celle con i loro stessi escrementi), oppure la geniale idea di Mr e Mrs Everybody, coppia di personaggi fittizi che su ogni televisore viene personalizzata con le fattezze dello spettatore, per portarlo a una immedesimazione completa con questa coppia che può girare il mondo, esprimere idee etc.

Dulcis in fundo, la capacità letteraria di Brunner: che quando vuole tratteggiare una scena o un personaggio in maniera tradizionale, non ha nulla da invidiare ai migliori scrittori “mainstream”.

Tutta questa architettura narrativa sorregge una trama significativa: i due protagonisti, Donald e Norman, forzatamente amici perché compagni di stanza, vengono inviati ai due estremi opposti del mondo per due distinte missioni, comunque sotto il controllo dell’apparato militar-industriale: il mite Donald, ufficialmente consulente governativo, si rivela agente “dormiente” e viene improvvisamente richiamato, sottoposto a un condizionamento che lo rende una macchina per uccidere, e spedito in Indonesia, pardon Yatakang, per sabotare l’ultima iniziativa del generalissimo locale: una rivoluzione genetica che permetterà di allevare solo supercittadini. Norman, invece, ambizioso nero arrivato ai vertici della General Technics (conglomerato simile alla IBM di allora o alla Ono-Sendai del cyberpunk; produttore di Shalmaneser, supercomputer che come un oracolo guida le scelte governative), viene incaricato di una missione ancora più ambiziosa: pianificare nel giro di vent’anni lo sviluppo della Beninia, immaginario paese nella baia del Benin, caratterizzato sì dalla miseria ma anche dalla pacificità dei suoi abitanti, che pur essendo vissuti per secoli tra popolazioni bellicose e schiaviste ha saputo mantenere la propria unità come popolo e un bassissimo tasso di violenza al suo interno.

Se il romanzo si raccomanda per molti motivi a qualunque appassionato di fantascienza (è spesso considerato, e con buone ragioni, uno dei migliori romanzi scritti in questo genere), da un punto di vista solarpunk è particolarmente interessante per come smonta il sistema di valori e di illusioni consumistiche, ma soprattutto per la descrizione della Beninia, delle sue tradizioni, della sua cultura: Brunner abbozza un esame di questo popolo che non conosce l’aggressività sia linguistica, sia spirituale, immaginando una loro religiosità simil-cristiana incarnata dal profeta Begi, paragonato in modo intelligente e spassoso a Gesù. La causa fondamentale della loro diversità non sarà in realtà così eterea… ma non anticipo nulla!

Antonio Ippolito
John Brunner
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