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di Daniele Barbieri
Frederik Pohl, GLI ANNI DELLA CITTÀ (The years of the city, 1984), trad. di Roberta Rambelli, Ed. Nord 1984

Cercando bei libri vecchi – magari “precursori” del solarpunk – mi è venuta l’urgenza di rileggere «Gli anni della città» del grande (quasi sempre) Frederik Pohl. Do un’occhiata negli scaffali della mia biblioteca: mannaggia non c’è più. Perduto o fuori posto? Va beh, lo ricompro: come sarebbe a dire fuori catalogo? Lo vooooooglio: vado in rete, lo trovo, me lo faccio mandare e lo divoro con sommo gusto… yuk-yuk, come direbbe Pippo quando mangia le arachidi.

Anche se non ho ritrovato il mio vecchio libro però da una ragnatela vagabonda spunta la fotocopia di una recensione: ohibò, è firmata Erremme Dibbì (cioè Riccardo Mancini e Daniele Barbieri) e apparve sul quotidiano Il Manifesto del 12 febbraio 1986. E allora eccola.

D.B.


New York 2150: igiene e rispetto sotto la grande cupola

«Tiro avanti scrivendo science fiction e quindi sono curioso sul futuro della città (e di tutto il resto)». Così il quasi settantenne Frederik Pohl si schernisce nell’introduzione a Gli anni della città (editrice Nord, 314 pagine, 8mila lire). In realtà quest’autore sta attraversando una stupefacente seconda giovinezza, confermata da numerosi premi letterari anche se – potenza dei miti – di lui si parla sempre come del capostipite della «sf sociologica» per «I mercanti dello spazio» (scritto a 4 mani con il defunto Cyril Kornbluth, oltre 30 anni fa). Qui fa centro con una splendida saga metropolitana.

È la storia di New York in 5 capitoli-racconti (tra loro indipendenti ma sempre correlati) dai giorni nostri al 2150.

Si parte dal malessere e dalle difficoltà di gestione sociale odierni, verso un ambizioso progetto di ristrutturazione urbanistica e sociale con due elementi cardine: la costruzione di un’enorme cupola su Manhattan e la creazione dell’«Assemblea universale cittadina» (Auc) delegata a una più democratica gestione del potere.

La cupola è innanzitutto risparmio energetico: «Quando era inverno i newyorkesi indossavano camicie a maniche lunghe» e potevano gustarsi l’effetto della neve da «dietro i vetri» plastici che ricoprono completamente la Grande Mela ribattezzata «la Grande Vescica». All’interno è proibito qualsiasi inquinante: fabbriche, automobili, riscaldamento e gas vengono sostituiti da energie pulite. Il rispetto per i cittadini è talmente radicato che perfino i deltaplanisti sono «perseguitati» perché atterrando malamente su qualche pedone potrebbero ferirlo.

L’Auc è lo strumento principe della democratizzazione… tramite telecomunicazioni: si votano in diretta (via telefono e sigla identificativa) proposte sociali, investimenti, destinazione dei fondi pubblici usando come conferenzieri improvvisati gli stessi elettori, scelti asetticamente dal computer.

Non è l’utopia perfetta: Pohl fa apparire in trasparenza inconvenienti “secondari” ma indicativi. Ogni tanto qualche chiatta incaricata di portare in alto mare i residui organici non riciclabili della metropoli ruba qualche minuto per risciacquare le stive, per guadagnare il tempo di un altro carico; oppure viene processato il responsabile delle pulizie dei bagni pubblici accusato di accettare bustarelle avallando straordinari non eseguiti. Tutti qui i crimini della metropoli più violenta del mondo? Con la legalizzazione degli stupefacenti e il crollo della prostituzione si è giunti a una graduale diminuzione dei reati, anche perché il Parlamento lavora «a rovescio», cercando di eliminare le troppe leggi esistenti. «Ma dove si arriverà se si permette sempre tutto?» si interroga uno dei pochi “passatisti” ancora in circolazione; ma – per Pohl – questa utopia sociale permissiva non porta alla catastrofe bensì a una vita più libera e piacevole per tutti. Per i violenti e gli anti-sociali la punizione è di essere «ibernati» sperando che qualcun altro, dopo una trentina d’anni, sarà in grado di convincere i colpevoli dell’inutilità dei crimini.

Pohl dedica una particolare attenzione ai rifiuti («sociali») della città; nel primo capitolo i cosiddetti Pibs – Persone In Bisogno di Supervisione – «usciti da un carcere, un riformatorio o un manicomio: tutti giovani, tutti maschi, tutti negri» sono isolati in comunità terapeutiche senza sbocco; si passa poi ai carceri “modello” in realtà violentissimi e computerizzati, con anziani reclusi perché accusati di truffe con i computer. Con il passare degli anni i criminali «leggeri» dovranno scontare la pena svolgendo servizi sociali pochissimo allettanti. Fino all’ultimo capitolo dove due «scongelati» dall’ibernazione – retrogradi e noiosi scocciatori? – saranno costretti dalla Corte Suprema (composta da giudici estroversi sempre con lo spinello in mano) alla peggiore delle condanne: sposarsi tra loro, e niente divorzio.

Pohl parla di sesso senza pruderie; di stupefacenti senza moralismi; di moda senza fanatismi; di cibo senza grassi né banalità; e di leggi con ironia. Non è poco.

Il lontano futuro che fa da cornice all’ultimo capitolo è quello più divertente. I giudici della Corte Suprema sono l’emblema della modificazione etica sopravvenuta: «drogati», distratti, cyborg a rotelle, bambolone super sexy con l’incarico di redimere le poche cause penali in una società dove quasi tutte le questioni «vengono sistemate al momento». L’interesse è puntato infatti sul 31° emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti che recita: «Nessuno ha il diritto di scocciare gli altri. Questo ha precedenza su tutto».

Erremme Dibbì

PS (post scriptum … ma anche Pohl Super)

Il libro riletto 35 anni dopo – mica bruscolini – funziona. E la recensione? Sì, tutto sommato con qualche lieve forzatura; colpa della fretta con cui scrivevamo o di qualche taglio redazionale? Boh. Ci siamo dimenticati di citare Roberta Rambelli che ha tradotto e di certo io e Riccardo non abbiamo abbastanza lodato la scrittura, sempre frizzante, e i personaggi (un paio memorabili) del vecchio-giovane Pohl. Anche se allora la parola spoiler non si usava abbiamo cercato di rivelare la trama – o meglio le trame – meno possibile; forse esagerando. L’equazione sindacati uguale mafia avrebbe meritato qualche osservazione (gli Usa erano un mondo a sé stante anche in questo). Sulle rinnovabili vediamo oggi che quasi tutto si sapeva e si poteva fare e dunque… Abbiamo buttato trenta-quarant’anni; per tacere che oggi l’Italia ha un ministro nuclearista con i cingoli talmente geniale da convincere la Ue che per eliminare un po’ di petrolio ci vogliono gas e atomo; scusate la digressione sull’Italschifo ma ho il sangue agli occhi. Forse nella recensione avremmo dovuto sottolineare maggiormente la bella idea di fondo: la città agonizza («forse morirà» cantava Edoardo Bennato qualche anno prima) ma possiamo e dobbiamo salvarla, si può persino renderla democratica e persino più divertente.

Un libro da «ripubblicabili» insomma – se non sapete che “roba” è cfr: «Sardigna ruja» (e non solo) di Gianfranco Pintore – come, per restare alla fantascienza, molti romanzi di Samuel Delany (cfr «Babel 17») o i racconti di quell’Alice Sheldon che si “travestì” da James Tiptree Junior. Ma questo di Pohl è anche un filo per continuare la ricerca di qualche antenato recente al solarpunk. Non è bene ricordare solo le sconfitte del mondo detto reale, vero? Così per il futuro prossimo mica dobbiamo ascoltare sempre i sognatori tristi o le sognatrici noiose che immaginano solo distopie, vi pare?

Ah, se guardando la copertina vi chiedete cosa c’entri un disco volante… beh siete in numerosa, buona compagnia; chissà se Pohl la vide e sghignazzò. Pigrizia, per favore va via.

Daniele Barbieri
Frederik Pohl
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