Asimov, Pohl, Dick e naturalmente Ursula Le Guin, insomma relazioni più strette di quel che si potrebbe pensare.
Daniele Barbieri
«Ecco un forestiero, prendiamolo a sassate». Non è un comma dell’ultimo decreto “sicurezza” ma una notissima vignetta su «Punch», rivista satirica del secolo scorso. Ironia su una triste e antica verità. Spesso lo straniero (e/o la straniera) fa paura. Molte e molti di noi lavorano perché il tempo delle sassate finisca ma ci accorgiamo che è radicata nella società l’idea che ciò che non conosciamo possa portarci solo guai.
Provo a contestare questo antico timore usando la letteratura avveniristica e/o utopistica, in particolare quella che di solito viene definita fantascienza: ho tentato di farlo anche (in alcune piazze, teatri, luoghi associativi) con la lettura di «Il tranquillo calduccio della paura» che appunto mischia il reale e la science fiction. Mi spiace se chi ora sta leggendo ha pregiudizi contro la fantascienza ma questa non è la sede per discuterne. Ma perché non provare a vedere se qualcosa qui vi intriga?
L’idea di una società futura (o aliena) che affronti la risoluzione dei conflitti con metodi nonviolenti è così sorprendente che persino una lettura utopica fatica ad affrontarla. Però sin dalla science fiction “classica” – i decenni ’40, ’50 e ’60 – l’idea prende corpo. A farci i conti sono Isaac Asimov e Thedore Sturgeon, entrambi più volte; Clifford Simak (in «Oltre l’invisibile» rimanda a Thoreau); Frederik Pohl (un suo racconto si intitola «Provate a immaginare se solo il 2 per cento della razza umana si rifiutasse di combattere»); Charles Harness (i neandherthaliani nonviolenti di «Paradosso Cosmico», così sconvolgente che Urania lo pubblicò con 32 anni di ritardo); John Brunner (in particolare in «Sogna superuomo»); Erik Frank Russell (in «Galassia che vai» di cui poi si dirà) e molti altri. Tutti maschi, come si vede ma… le donne irromperanno nella fantascienza dagli anni ’70 (in poi) che comunque meritano un discorso a parte. Fra i libri più recenti vale almeno segnalare «Gli orrori di Quetzalia» di James Morrow (su Urania nel 2007) e il trittico di Robert Sawyer che è stato tradotto sempre su Urania. Ma sarebbe interessante anche recuperare in questa chiave «Heirloom» di Norman Spinrad o «Lucky Strike» di Kim Stanley Robinson il quale addirittura prova a immaginare cosa sarebbe accaduto se nell’agosto 45 a Hiroshima quel pilota avesse obiettato…
Contrariamente ad Asimov super-star, da noi Sturgeon è autore poco apprezzato, se non disprezzato: forse anche a causa dei temi “spinosi” che affronta (il diverso sessuale, razziale, mentale) o per il continuo elogio del dubbio. Per comprendere quanto fosse sovversivo e gandhiano bisogna rileggere «Il tuono e le rose», un racconto del 1947.
Pete, il protagonista, è addetto al “pulsante rosso” ma dopo il bombardamento sovietico impedisce che parta la rappresagli atomica degli Usa perché se così fosse non ci sarebbe nessun vincitore, mai più. E alla fine Pete sussurra (a nessuno e a tutto il mondo): «Avrete la vostra chance (…) e per Dio sarà meglio che la sfruttiate». Una morale incomprensibile a molti nei tempi della guerra “fredda” ma anche oggi all’epoca degli interventi armati presunti umanitari.
Inconcepibile risulta pure l’aliena Lilo, protagonista del romanzo di John Varley «Linea calda Ophiucus». Infatti per Lilo «il concetto di ricerca bellica era nuovo»; non riusciva a credere «che il tuo lavoro abbia un solo fine: uccidere qualunque cosa tu riesca a scoprire». E ancora: «era possibile che fosse un soldato, sebbene Lilo non fosse esperta in malattie mentali».
Sul finire degli anni ’60 nella fantascienza arriva un ciclone di nome Ursula Le Guin che, fra l’altro, scrive una storia futura ma che affonda nel presente perché riprende le grandi lotte di Gandhi e la tradizione del boicottaggio. Confido che chi legge «Azione nonviolenta» conosca almeno «I reietti dell’altro pianeta» che in italiano gira anche, in varie edizioni, sotto i titoli «Quelli di Anarres» e «Un’ambigua utopia». Se scoprirò che così non è, cioè che non conoscete Ursula Le Guin, ve ne parlerò un’altra volta.
Concludo questa veloce rassegna scaraventandovi dentro due scenari, il primo è di Philip Dick; il secondo di quel Frank Russell citato all’inizio.
Bob Bibleman vince una lotteria-fregatura e si ritrova in un college militare, nella località «Seifottuto». Ovvio che sarà un inferno. Il capo dei docenti, maggiore Casals, è un concentrato di stronzaggine aggressiva. Sin dalla prima lezione l’unica persona che prova a tener testa a Casals è un’allieva, Mary. Il maggiore minaccia: se studiando vi imbattete in segreti militari, non li rivelate o finirete in un tribunale speciale. Per un caso Bob trova segretissime notizie su una energia super-economica e pulita. Che fare? Si consiglia con Mary che gli dice: devi decidere tu, fossi al tuo posto io rischierei. E invece Bob cede alla paura e alle minacce. A quel punto Casals lo espelle. «Il college ero io» gli spiega Mary: «lo scopo del test era insegnarti a stare in piedi da solo, anche a rischio di sfidare l’autorità (…). Io cercavo di renderti completo moralmente. Ma non si può ordinare a qualcuno di disobbedire, non si può ordinare la ribellione. Io potevo semplicemente darti un esempio». Interessante no? Si intitola «L’ultimo test» e dovreste trovarlo in varie antologie dickiane.
La conclusione è affidata a un ironico racconto lungo (poi “montato» con altri a romanzo come «Galassia che vai», in varie edizioni Urania) di Erik Frank Russell, che vale riassumere; era intitolato… no, è meglio dirlo solo alla fine.
Un’astronave terrestre arriva su un’ex colonia con la quale da secoli la «patria» ha perso i contatti. Apparentemente il pianeta è tranquillo ma le pattuglie mandate in ricognizione non tornano. Gli indigeni sembrano tranquilli seppure un po’ matti e comunque per nulla disposti a collaborare. Dopo varie disavventure, due esploratori – Gleed e Harrison – trovano finalmente Baines, un indigeno che decide di aiutarli a capire. Innanzitutto rivela che gli abitanti del pianeta hanno un’arma invincibile e gliela mostra.
«Gleed la esaminò, rigirandola fra le dita. Non era altro che una striscia ovale […] portava la scritta, Lmr».
Il terrestre si stupisce e chiede a Baines se davvero quell’oggetto sia un’arma. Serissimo quanto enigmatico l’indigeno dice che sì, è un’arma molto potente. Ma cosa vuol dire Lmr?
«E’ diventato il motto del pianeta (…) Significa; libertà, mi rifiuto» risponde.
Sempre più perplesso Gleed chiede di spiegargli come funziona l’arma e Baines risponde «mi rifiuto».
Seccato più che stupito, Gleed insiste: «Bell’aiuto… Perché non me lo dice?».
Stessa frase.
A questo punto nel cervello di Harrison scatta una molla; guardando Baines si mette in tasca la targhetta. L’indigeno chiede di riaverla e Harrison replica: «mi rifiuto».
Il commento di Baines è: «C’è chi è più sveglio di comprendonio e chi meno».
Ora anche Gleed inizia a capire. Sogna di poter dire quelle due parole al comandante quando riceve un ordine ma teme di finire in gattabuia. Discutono. All’esitante Gleed prima Baines e poi Harrison spiegano che se anche il successivo soldato al quale verrà chiesto di eseguire l’ordine si rifiutasse… E poi quello dopo… Il sogno potrebbe materializzarsi così: «alla fine il comandante prende secchio e spazzola e si mette a lavare il ponte […] intanto sua eccellenza l’ambasciatore è in cucina a preparare il pranzo per tutti, assistito dagli altri burocrati». Ma quel sogno è maturo per diventare realtà?
Nel prosieguo di questo lungo racconto, sapremo che a colonizzare il pianeta furono i seguaci dell’uomo che, tanti secoli prima, aveva “inventato” l’arma invincibile, un indiano chiamato Gandhi.
«Mai sentito nominare» è il secco commento di Harrison e Gleed.
«Non me ne stupisco» sogghigna Baines … «visto che ha insegnato come la vera libertà sia sapere quando bisogna dire mi rifiuto».
Forse immaginate come il racconto di Russell si concluderà.
Ah, il titolo originale era «E non ne rimase nessuno». Sull’astronave ovviamente.
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