traduzione di Silvia Treves
Questa tavola rotonda virtuale è stata originariamente pubblicata in inglese il 24.10.2023 in Public Books che ringraziamo per la disponibilità.
Questa tavola rotonda, che ha celebrato il 94° compleanno di Ursula K. Le Guin, ha voluto fare il punto su tutto il suo meraviglioso arco di tempo. Ha esplorato le origini e il contesto storico della sua opera, nonché il suo impatto politico ed estetico oggi, a mezzo decennio dalla sua morte.
Arwen Curry è autrice e regista del celebre documentario Worlds of Ursula K. Le Guin.
So Mayer (scrittrice, libraia, organizzatrice e curatrice di film) è autrice di Truth & Dare (2023)e curatrice, insieme a Sarah Shin, di Space Crone, una nuova raccolta di scritti di Le Guin.
Julie Phillips è autrice della premiata biografia di SF James Tiptree, Jr: The Double Life of Alice B. Sheldon, e sta lavorando a una biografia autorizzata di Le Guin.
La conversazione è stata organizzata da John Plotz di Public Books (Ursula Le Guin’s Earthsea).
John Plotz: Quale libro di Le Guin ha fatto più differenza per te e perché?
So Mayer: Mi lessero Il mago di Earthsea alle elementari e lo odiai. Mi fece arrabbiare tantissimo. Era il terzo libro di fila che ci veniva letto, dopo Lo Hobbit e Moonfleet, e dichiarai alla maestra che erano tutti per ragazzi. Mi fece infuriare. Così non lessi più Le Guin o, meglio, pensai di non aver più letto Le Guin fino a quando, a vent’anni, fui assistente in un corso di fantascienza e fantasy tenuto dal meraviglioso Daniel Heath Justice.
Poi ho letto la serie di Earthsea e mi sono ritrovata a rileggere Le tombe di Atuan, un libro che pensavo di non aver mai letto prima. Ma l’avevo letto! E mi era entrato dentro a un livello così profondo che pensavo di averlo sognato. In realtà, era diventato il sogno strutturante di tutta la mia vita: il sogno di lasciarmi alle spalle le tombe e di sperimentare quella difficile libertà che giunge a Tenar. E rileggerlo in un momento molto difficile dei miei venticinque anni ha cambiato completamente il mio rapporto con me stessa, con la narrativa, con la fantascienza.
Arwen Curry: La falce dei cieli mi ha davvero colpito. Mi ha colpito il rispetto e la delicatezza con cui l’autrice tratta i suoi personaggi e le loro relazioni, i dettagli di come appare l’amore, giocati all’interno di un’ambientazione in continuo fermento e cambiamento.
E, naturalmente, c’è anche l’idea del libro che i sogni cambino la realtà. Se lo si dice distrattamente, sembra un cliché o una cosa semplice. Ma per me era così profondamente interessante: la realtà che stavi vivendo in un dato momento non era la stessa per la persona accanto a te, e potevi essere l’unica a sapere che queste sfumature stavano cambiando.
Julie Phillips: Vorrei chiederti cosa intendi per “fare la differenza”. Stai parlando di un libro che riflette la mia esperienza – il senso di me stessa all’età di tredici anni – come Le tombe di Atuan? Stai parlando di un libro che mi ha catturato così emotivamente e mi ha sorpreso completamente nelle prime due pagine come La falce dei cieli? Stai parlando di una storia che mi ha fatto piangere, come Una storia alternativa, o Un pescatore del mare interno o La storia degli Shoby? Stai parlando dei suoi scritti sulla maternità, in particolare nei suoi saggi ma anche nella narrativa, e di come questi abbiano dato forma al mio ultimo libro? E di come tutta la sua vita e i suoi romanzi, come la serie di Earthsea, abbiano plasmato il mio senso di ciò che può essere una vita creativa?
Che tipo di differenza? Lei fa tanti tipi di differenza. Pone tante domande. Come ha detto nel documentario di Arwen, “io apro porte, non sta a me decidere cosa entra e cosa esce”.
Ho appena tenuto una conferenza a un gruppo di studenti del nono anno che avevano letto La falce dei cieli e Quelli che si allontanano da Omelas. Erano davvero entusiasti di pensare a ciò che rende giusta una società. E ho la sensazione che porteranno sempre con loro questo pensiero. E che più leggeranno Le Guin, più ricchi diventeranno i loro pensieri e più domande si porranno.
John Plotz: Parliamo della portata dell’essere umano. Julie, tu citi Le Guin che dice: “Il mondo in realtà non ci appartiene affatto”, e citi Michael Chabon che dice che Le Guin “ci dà una visione dall’altra parte”. Mi colpisce molto questo di lei, come scrittrice: che l’umano non si riassuma in termini di ciò che le interessa.
Julie Phillips: Nemmeno l’animato! Immagina come sarebbe pensare come una roccia. Questo è davvero, davvero potente per pensare al clima, all’ecologia e all’Antropocene e a quali sono le nostre responsabilità e i limiti dei nostri poteri.
Arwen Curry: A volte la gente mi chiede, durante le domande e risposte che seguono una proiezione, cosa penserebbe lei della situazione attuale? Siamo condannati? L’umanità sopravviverà?
E la mia migliore riflessione è che lei vedeva oltre l’umanità. Non si preoccupava solo della sopravvivenza dell’umanità, ma anche delle altre creature, delle strutture e degli esseri e del pianeta stesso, della terra, del paesaggio.
Julie Phillips: Sì, trova l’emozione nel paesaggio, cercando di sentire ciò che quel paesaggio potrebbe avere da dire per se stesso. C’è un suo saggio molto bello [The Election, Lao Tzu, a Cup of Water NdT], scritto alla fine del 2016 sul fatto di trovare la speranza politica nel Tao Te Ching e nella Via dell’acqua. L’acqua non sembra resistere, trova i luoghi bassi e può sporcarsi, eppure rimane sempre se stessa e consuma le rocce. Se ci si apre alla consapevolezza del suo potere, l’acqua ha più forza di quanto pensiamo. E lei potrebbe averci detto di cercare la speranza nelle cose che sembrano impotenti e di cercare il potere anche in quei luoghi.
Questa è la cosa magnifica dell’apertura di La falce dei cieli: c’è la medusa, che è impotente. Non può guidare se stessa, ma è in mezzo all’oceano che la trasporta ed è parte del potere dell’oceano. È tutt’uno con il potere dell’oceano.
Arwen Curry: E lei definisce la medusa una forma di vita molto antica e di successo. Questa è una strategia antica e di successo.
Non sta dicendo necessariamente: “L’umanità è condannata, ma altre cose sopravviveranno, quindi va bene”. Sta dicendo che l’umanità non guarderà la strada che guarda ora. La società non guarderà la strada che guarda ora. Dovremo seguire ciò che verrà e trovare altri modi per fluire.
John Plotz: Posso tornare alla questione delle sue convinzioni e azioni politiche? Mi piacerebbe sentire i vostri pensieri sui punti di svolta della stessa Le Guin. C’è una linea coerente, o si possono considerare i momenti in cui è cambiata o le battaglie che ha combattuto?
Julie Phillips: Dal punto di vista biografico, è stata molto attiva politicamente, almeno dagli anni Sessanta in poi, in modi molto pratici. Ha manifestato contro le armi nucleari, è andata nelle sedi delle campagne elettorali, ha imbustato lettere per i candidati democratici alla presidenza, ha marciato contro la guerra del Vietnam e per i diritti civili. È entrata a far parte del consiglio di amministrazione della biblioteca pubblica di Portland, ha svolto quel lavoro comunitario, ha scritto lettere di protesta al direttore dell’Oregonian. Per lei non c’era solo la teoria.
So Mayer: Alcuni dei suoi ultimi scritti che ho letto erano lettere al giornale locale sullo stallo a Malheur[1]. Parlava contro i seguaci di Bundy, ma anche contro la resistenza armata nei loro confronti.
L’opposizione alla violenza, al dominio, mi sembra il tema unificante della sua politica, anche se ci è voluto un po’ per tradurla in qualcosa che si potesse definire femminismo. Ma l’opposizione alla violenza – essere contro la guerra, contro il nucleare, contro la separazione tra gli umani e gli altri esseri del pianeta – sembra un filo conduttore del suo pensiero e qualcosa con cui era costantemente alle prese.
Prendete Il mondo della foresta. È un libro sulla guerra del Vietnam, sull’Agente Orange e sull’attacco al mondo vivente e agli esseri umani al suo interno. Sembra un libro molto visionario, anche se è quasi un documentario del suo tempo.
Poi c’è I reietti dell’altro pianeta, che per me, nella sua forma, è quasi una guida spirituale oltre che politica. Ha questa struttura duplice che torna su se stessa e termina con le mani aperte. Così facendo, non dice che questa sia una ricetta per vivere la vita politicamente. Ma dice che bisogna trovare una forma che soddisfi la politica dell’apertura, della rivoluzione, del cambiamento.
Trovare una forma letteraria per abitare la propria politica, ed esserne abitata: questo è tutt’uno con il fatto che, per lei, la politica non era né casuale né contrapposta. Partecipare a una marcia e trovare la forma di una marcia nel proprio romanzo vanno insieme in modo straordinario nel suo lavoro.
Arwen Curry: Prendiamo il femminismo: come giovane donna, come giovane narratrice, scriveva dalla prospettiva maschile del giovane eroe in queste situazioni mitiche. Quindi stava riecheggiando e imitando quella voce che tutte noi, in quanto lettrici, abbiamo dovuto in qualche misura assumere come lettrici e scrittrici. E all’inizio non si considerava necessariamente una femminista. Attraverso il femminismo di seconda ondata, attraverso il movimento delle donne, ha iniziato a rendersi conto che io sono parte di questo. Sono una persona che è stata oppressa in qualche modo. Ma invece di fermarsi – perché ciò blocca spesso le persone, ricevere una critica da altre femministe, da altre persone all’interno della loro cerchia, può bloccare il processo – era molto determinata a incorporare nel suo lavoro questa nuova comprensione del mondo e del suo posto in esso.
E poi c’è la svolta femminista di Earthsea in Tehanu [quarto romanzo del ciclo di Earthsea, NdT]:una risposta. E questo non piacque necessariamente alla gente, tra i suoi lettori originari, che erano per lo più uomini. E lei trovò il modo di raggiungere un equilibrio nel suo lavoro con tutte queste pressioni, e di uscirne più produttiva e comunicativa che mai.
Personalmente, uno degli insegnamenti che ho tratto da lei – e che è più duraturo per me come persona creativa e come umana – è la sua capacità, anche da persona molto orgogliosa, una persona orgogliosa della propria arte e del proprio mestiere, di assorbire le critiche e lasciare che facessero il loro effetto: lasciare che si compattassero dentro di lei e rifiutare ciò che era fallace.
Julie Phillips: Il processo è proseguito attraverso il suo blog, che era molto impegnato nelle questioni del giorno. L’aspetto interessante è che per lei non era particolarmente facile scrivere di questioni politiche senza mettere molta distanza tra se stessa e le questioni, senza collocarle su un altro pianeta. Perché, come ha detto lei stessa, aveva la tendenza a salire su un podio improvvisato e doveva trovare il modo di non farlo.
Ma alla fine della sua vita, ha capito come scrivere un saggio politico davvero coinvolgente, per nulla predicatorio (o non molto!) e che funzioni come saggio e non solo come esortazione. Finalmente è riuscita a fare qualcosa che ha sempre voluto fare e che non sapeva come fare. Così ha sempre continuato a imparare il suo mestiere.
So Mayer: Uno dei miei saggi preferiti, che abbiamo incluso in Space Crone (e indosso una felpa con una citazione presa da lì, realizzata dall’artista gallese Frank Duffy) è Is gender necessary? [Redux] [2] che, in realtà, è due saggi in uno. Si tratta sia di una riflessione sulla creatività, sia di un saggio in fieri sulla politica; possiamo osservare una grande artista che si fa strada verso qualcosa di nuovo. Questo era parte del processo di cui parlava Arwen: lasciarsi mettere alla prova, in particolare per quanto riguarda La mano sinistra del buio, un romanzo che ha attraversato molte generazioni, con differenti forme di preoccupazione, di accoglienza, di critica e ritorni, in parte perché Le Guin continuava a tornarci sopra e a dire: “Ho sentito quelle critiche”. Questo è il saggio in cui mette in discussione l’uso del pronome he. E alla fine arriva a pensare che forse, se stesse riscrivendo il libro, userebbe essi/loro per i Getheniani. In seguito ha scritto un racconto ambientato a Gethen, (Coming of Age in Karhide [Diventare adulti in Karhide] che appare nella raccolta Il compleanno del mondo, in cui decide di entrare in una casa kemmer e, da persona anziana, abbraccia per la prima volta nel suo lavoro la scrittura sul sesso, la sessualità e l’erotismo in un modo bellissimo.
Per me questo è estremamente politico, sia che la si chiami politica con la P maiuscola (o, alla luce del personaggio di Odo che piscia su una statua, forse potremmo chiamarla politica con una piccola pipì). Lei ha continuato a cambiare, ha mantenuto viva quella trasformazione come modello di politica, che le cose potevano cambiare, che la forma poteva cambiare, nel saggio come nella narrativa.
E so che La mano sinistra del buio è stato un libro estremamente significativo per me come persona non binaria. E so che lo è stato anche per molti scrittori e artisti trans, che lo hanno amato e discusso in modi diversi. E io dico sempre loro: “Andate a leggere Coming of Age in Karhide e scoprite l’utilissima parola clitopenis”.
Ci è permesso dirlo in Public Book, John?
John Plotz: Sicuramente.
So Mayer: È molto scientifico.
John Plotz: Quando Le Guin parlava di se stessa come di una persona sotto attacco, si descriveva come una scrittrice di fantasy o di fantascienza sotto attacco. Quella era la categoria per cui parlava. Il genere, per lei, è qualcosa che le conferiva potere o piuttosto una limitazione, un muro che mettiamo intorno al suo lavoro e che non le rende giustizia?
Julie Phillips: Tra le altre cose, il genere nella scrittura è spesso accompagnato dal concetto di comunità. Le persone formano comunità come scrittori di generi diversi. E la comunità della fantascienza poteva essere limitante, ma era anche molto importante.
So Mayer: Almeno per quanto riguarda i suoi scritti pubblici, è stata una grande difenditrice della fantascienza e del fantasy. Li difendeva dall’esterno, contro i presupposti della narrativa letteraria d’élite, e dall’interno, contro alcune delle loro peggiori tendenze maschiliste, colonialiste e militariste. Le tendenze “da spogliatoio”, come ha scritto in quella famosa lettera[3] in cui si rifiutava di introdurre un’antologia.
E ha incoraggiato l’aumento delle persone che avevano accesso alla scrittura e alla lettura di fantascienza e fantasy, in particolare nei suoi ultimi anni dietro le quinte. So che ha lavorato con diversi scrittori e editori delle Prime Nazioni per assicurarsi che le antologie e i libri che stavano pubblicando vedessero la luce e avessero il sostegno che meritavano.
Julie Phillips: Soprattutto nei primi anni, poteva essere scettica nei confronti dei suoi stessi scritti di fantascienza, come a dire: Che cosa sto facendo? Pensavo che sarei diventata una scrittrice letteraria, ed eccomi qui a sfornare un altro di questi libri. In privato, era quasi depressa per questo.
Ma in pubblico, il suo impulso contro il comportamento e la critica escludenti era così forte che ha sempre voluto includere se stessa nella fantascienza. Ha sempre incluso la fantascienza in ciò che le interessava, e ha parlato dell’esclusione dalla fantascienza che avveniva all’interno della comunità fantascientifica.
Arwen Curry: Julie, l’aspetto della comunità che hai menzionato è stata la prima cosa che è venuta in mente anche a me. All’inizio è entrata per caso nella fantascienza. È sempre stata attratta da cose che non esistevano davvero, ma non voleva necessariamente diventare una scrittrice di fantascienza. Era una scrittrice, una poetessa, ma era così che poteva essere pubblicata.
E quando ha ricevuto il feedback di altri scrittori e il contatto diretto con i fan e quel senso di vitalità, di comunità e di sostegno, anche se problematico, ha trovato un luogo in cui poter dire la sua. Non ha mai voltato le spalle alla fantascienza.
Julie Phillips: E questo è anche così motivante per il suo lavoro. Guardate i materiali del genere e le forme del genere. In un certo senso era una scrittrice alla ricerca di una forma che funzionasse per lei. E la sua immaginazione è fiorita e si è aperta una volta che si è spostata nello spazio esterno e in Earthsea.
Le dava un senso di potere. Era molto brava a costruire mondi, ma probabilmente si sentiva anche molto potente nel poter abitare quei mondi e decidere che cosa vi accadesse. Quel senso di controllo (mantenere il controllo senza essere controllante, senza irrigidimenti) le giunge in qualche modo.
John Plotz: Ho un’ultima domanda che nasce dalla battuta finale del tuo film, Arwen: “Abbiamo una lunga strada da percorrere, e non posso andare senza di te”.
Ho la sensazione che in Le Guin ci sia un impegno di solidarietà. Non posso andare senza di te. Ci deve essere un noi, ma c’è anche qualcosa di molto solitario nella sua scrittura. La considero quasi una solidarietà solitaria. C’è una tensione: l’impegno alla solitudine – l’anarchismo, l’andare per la propria strada – accanto all’impegno alla solidarietà?
So Mayer: Mi fa subito pensare a Shevek, il protagonista de I reietti dell’altro pianeta, e in particolare al momento in cui si rende conto di essere talmente scomparso nel proprio lavoro da essersi ammalato. E il suo modo per tornare indietro è andare a fare il lavoro comune di Anarres: scavare fossati, pompare liquami, parlare con persone che non gli piacciono in mensa.
E per me, come persona che scrive, questo è molto commovente. Ancora una volta, ti dà una possibilità, così come c’è la possibilità di vivere insieme e di convivere con il mondo che abbiamo creato e stiamo creando. Una possibilità di vivere con gli altri che a volte significa vivere con l’altro che è in noi. Ma possiamo muoverci tra loro. E non so se esista dal punto di vista biografico, ma è un aspetto che mi sembra molto presente nella narrativa.
Arwen Curry: Penso che sia certamente presente nella narrativa. Abbiamo questi inviati solitari. E dove vanno? Non vanno a incontrare un altro individuo. Vanno in una civiltà, in una società, e lì trovano delle relazioni. E devono imparare a capire come stare con un nuovo insieme di regole e di tradizioni.
E riguardo alla sua vita, una delle critiche che ha mosso al mio film, al documentario, è stata quella di far sembrare che non avesse amici. Non ho parlato con molti dei suoi amici, ma gli scrittori sono persone solitarie nel loro lavoro. E lei lo era, ma era così profondamente legata alle persone che amava e a quelle con cui lavorava. Quindi sono sicura che questa tensione esistesse anche in lei.
Prendiamo La spiaggia più lontana: questa passione per la connessione è così profonda nel romanzo. Ovviamente in Le tombe di Atuan, ma anche in La spiaggia più lontana, c’è un monito contro la perdita di connessione, contro la volontà di sacrificare la libertà, di sacrificare la gioia per la sicurezza, per l’abitudine.
E il suo punto di vista è che quella non è vita. Non è la vita. Siamo appollaiati sopra l’abisso e stare in equilibrio qui è il nostro lavoro. Non saremo al sicuro. E se questo è il nostro obiettivo primario, allora abbiamo perso.
John Plotz: Mi piace l’idea che lei scriva narrativa “da inviato”, Arwen, è incredibile.
Qualche parola finale? Ci sono domande che avremmo dovuto trattare ma non l’abbiamo fatto?
Julie Phillips: Certo, le domande sono infinite.
Traduzione di Silvia Treves
Per gentile concessione di Public Books
Note
[1] Nel 2016 i membri di una milizia anti-governativa capeggiata da Ammon Bundy occuparono un’area protetta di Malheur, in Oregon, per opporre resistenza alla “eccessiva invadenza del governo federale”. [NdT]
[2] il testo, (versione estesa 1976, Redux 1988) è di formato variabile: una o più colonne, con a fianco note numerate, come un lavoro in fieri. Seguire il link per prenderne visione. [NdT]
[3] Alla scrittrice venne chiesta una quarta di copertina per Synergy: New Science Fiction, Volume 1 (1987). Si trattava della prima di quattro antologie di sf contenenti storie di autori affermati ed emergenti. Nessuna autrice era inclusa nella line-up, e Le Guin scrisse di non riuscire a immaginare se stessa nell’atto di introdurre un’antologia “che non solo non conteneva nemmeno un’autrice, ma aveva un tono così soddisfatto di sé, esclusivamente maschile, come un club o uno spogliatoio”. Seguire il link per leggere l’intera missiva. [NdT]
Comments are closed