Bruno Arpaia, Qualcosa, là fuori, Guanda editore 2016, pp. 220 € 12,00, ebook € 7,99
Talvolta indicato in alcune liste come antesignano del solarpunk, in realtà questo romanzo di Bruno Arpaia è un climate fiction scritto da un autore non di genere.
La trama è accattivante: scritto su due piani temporali diversi, racconta la vita di Livio Delmastro, professore italiano di neuroscienze che insegna a Stanford, in un futuro caratterizzato da una crisi climatica irreversibile che sconvolge la biosfera della terra.
Il presente della narrazione è tragico: come l’intera zona temperata del pianeta, l’Italia è divenuta praticamente inabitabile a causa del clima torrido. L’agricoltura è impossibile, la civiltà organizzata si sfalda. Delmastro, anziano professore in pensione rimasto vedovo, si unisce a una colonna di disperati che sono convinti di pagarsi una possibilità di salvezza emigrando verso nord, verso la Scandinavia: è infatti intorno al circolo polare l’unica parte d’Europa in cui il clima permette ancora una forma di governo democratica, e la coltivazione di derrate alimentari.
Una colonna di trentamila profughi parte dunque dall’Italia: uomini e donne, vecchi e bambine, adolescenti e anziane signore, scortati da una formazione paramilitare. L’organizzazione che promette di trasportarli, dietro il pagamento di una cifra notevole, fino al Baltico , fornisce una forza armata anche pesantemente, e mezzi di trasporto per le vettovaglie — mentre il viaggio avviene a piedi, come quello dei disperati che nei nostri tempi attraversano il Sahel e poi il Mediterraneo. Si tratta infatti di attraversare un vasto territorio ostile, la Svizzera chiusa in sé stessa, parzialmente indenne dal disastro climatico grazie alle alte quote delle Alpi, e poi la grande, piatta Germania che invece è spopolata, devastata, abbandonata alla legge del più forte. Qui, come del resto in Italia, Arpaia decide di mettere in scena una ambientazione da fantascienza post-apocalittica: piccole comunità armate che difendono le scarse risorse, soprattutto la disponibilità residua di acqua, nessun potere centrale e soprattutto uno scenario da tutti-contro-tutti che ricorda certa science fiction britannica come Morte dell’erba (1956) di John Christopher o Gli anni della furia (1966) di Edmund Cooper.
A capitoli alterni, inoltre, il romanzo racconta il passato di Delmastro, dagli anni del liceo, e poi dell’università, sino al matrimonio e al lavoro negli USA. È in questi capitoli la parte più interessante del romanzo.
Per esplicita ammissione dell’autore, nell’ipotizzare il suo scenario futuro Arpaia ha scelto le teorie più massimaliste, nel senso pessimista, riguardanti la crisi climatica. Si legge nell’Avvertenza in appendice al volume:
Gli scenari di questo libro riprendono (e anzi, spesso ricalcano alla lettera) quelli delineati da Gwynne Dyer nel saggio Le guerre del clima (Marco Tropea Editore), ma li ho attentamente confrontati con i rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel ol Climate Change) e dell’European Environment Agency, i quali, però, secondo numerosi scienziati del clima, peccano sistematicamente per difetto.
Bruno Arpaia
Arpaia cita scienziati come James Hansen e Dennis Bushnell della NASA, e lo Oxford Earth Science Department, e diversi altri autori — tra i quali James Ballard, Cormac McCarthy, Arturo Pérez-Reverte e Carlo Lucarelli, e infine precisa che il titolo del romanzo è un omaggio postumo a Enrico Bellone, autore dell’omonimo Qualcosa, là fuori (Codice Edizioni, 2011).
La storia ambientata nella linea temporale del passato, che è poi il nostro futuro prossimo, racconta il lento scivolare del mondo verso il disastro, e l’impossibilità di porvi rimedio che, sembra dire l’autore, è insita nel meccanismo decisionale delle democrazie e nella psicologia di massa. Piuttosto che prendere provvedimenti seri, che influirebbero pesantemente sul proprio stile di vita e sul livello di consumi, i popoli si affidano all’irrazionale, alla demagogia di leader senza scrupoli, si abbandonano al messianismo che non solo è incapace di frenare la corsa, ma limita le libertà civili scaricando la colpa della situazione sulle minoranze. In questo modo le vittime della crisi climatica, i migranti, diventano i colpevoli.
C’è qualcosa di tragico nello scenario, purtroppo plausibile, tratteggiato da Arpaia; al tempo stesso c’è qualcosa che non convince nei capitoli ambientati nel presente della narrazione. Qui i personaggi sembrano fiacchi, la scrittura svogliata, le situazioni ripetitive e molto adagiate, come detto, su scenari post-apocalittici e sulle relative convenzioni, homo homini lupus insomma. Una cosa però si può salvare anche di questa parte della storia: se nell’altra è il senso di angoscia, di ineluttabilità a farne la grandezza, qui emerge una terribile metafora. Quando i migranti climatici superstiti attraversano le terre desolate e poi arrivano in vista del miraggio scandinavo, vengono trattati esattamente come noi oggi trattiamo i profughi che sbarcano dal continente africano, dall’Asia. Non c’è solidarietà, non c’è comprensione né empatia — e allora se la qualità di scrittura è inferiore a prove precedenti dell’autore (cito soltanto Tempo perso e L’angelo della Storia), l’angoscia è palpabile, e vedere in scena l’insensibilità verso chi sta peggio è in grado di aprire gli occhi.
In molti si stanno rendendo conto che presentare al pubblico situazioni disperate, senza via d’uscita, come per esempio la difficoltà di porre rimedio all’innalzamento della temperatura globale, provoca rassegnazione e cauterizza la volontà di reagire; mi sembra un po’ il difetto di questo libro. Il suo pregio, invece, come detto, è nello specchio deformante che sostituisce noi stessi, i mostri amici e parenti, l’intera nostra civiltà, ai disgraziati che cercano scampo all’idea di equilibrio politico mondiale creato dal capitalismo e dal suo apparato militar-industriale.
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