recensione di Franco Ricciardiello
Romina Braggion
Memorie di una ragazza interrotta
collana Atlantis n. 3, pp. 63 (stima), euro 2,99 ebook
Delos Digital, 2021
Mi rendo conto, nell’atto di rileggere freschi-di-stampa (virtuale) i testi che ho selezionato in quanto curatore per la collana Altlantis di Delos Digital, di come l’approccio del lettore finale differisca da quello dell’editor.
Ognuna delle tre prime uscite (le prime due sono “Cinque stagioni su Eureka” di Davide Del Popolo Riolo e “L’infinita leggerezza dei quanti” di Carducci & Fambrini) mi si è presentata, dopo la pubblicazione, come una lettura nuova, quasi non avessi a suo tempo passato con attenzione ogni singola parola, ogni frase, ogni periodo e poi su su fino alla struttura del testo. È evidente che cellule grammaticali o cluster logici letti in sequenza non contengono il significato del testo complessivo, né queste scelte semantiche valgono come sineddoche dello stile di un autore o autrice.
“Memorie di una ragazza interrotta” di Romina Braggion è un’opera particolare, anche all’interno di una collana che vuole fare della particolarità (tematica, stilistica, culturale) la propria bandiera.
La struttura è tipica del racconto lungo, o del romanzo breve, che ha l’ambizione di coprire un lungo arco di tempo narrativo: un’alternanza di brevi capitoli che raccontano due storie temporalmente separate, ma collegate da una sorta di “risonanza” per cui avvenimenti dell’una spiegano elementi dall’altra; tipicamente, la linea narrativa nel passato (linea-1) è anche una chiave per interpretare il futuro (linea-2).
Quella che ho chiamato “linea narrativa del passato” è semplicemente la prima in ordine cronologico, dal momento che anch’essa è ambientata nel nostro futuro.
La descrizione d’ambiente si può definire “a corto raggio”, e l’autrice adotta la buona regola dell’understatement narrativo, che è l’esatto opposto dell’aborrito infodump: in poche parole, l’azione non si ferma per spiegare direttamente, cioè da autrice a lettrice/lettore, l’antefatto, il novum che separa il nostro mondo da quello dell’ambientazione. Chi legge deve scoprire poco a poco l’ambientazione, più o meno seguendo lo stesso principio della letteratura d’indagine — tranne per il fatto che non si tratta di capire chi è il colpevole di un delitto, bensì qual è la diversità tra il mondo che conosciamo e quello in cui ci viene chiesto di entrare, sospendendo l’incredulità.
Il racconto inizia con due donne in fuga, madre e figlia, legate da un rapporto di dipendenza/conflitto; ricordiamo che alla base della fiction, come di tutta l’arte d’altronde, c’è un conflitto — ma il motore della trama non è quella “guerra dei sessi” che pure poco per volta si delinea sullo sfondo, bensì il rapporto tra Elisa e sua madre, che d’altro canto è metafora dell’opposizione Elisa/mondo, o nuova umanità/vecchio mondo.
Elisa è un gran personaggio, o meglio personaggia come è più corretto dire in un linguaggio inclusivo: è accattivante, imprevedibile, ostinata; non è decisionista ma neppure paralizzata dall’impotenza a agire, e il suo carattere cambia anche nel breve lasso di tempo concesso dai limiti di lunghezza del racconto.
La protagonista della linea-2 narrativa, spostata più avanti di secoli, è una ragazza di nome Ada che vive in una comunità esclusivamente femminile, sulle stesse montagne dell’alto Lago Maggiore dov’è ambientata la linea-1. La “famiglia di Fondotoce” è composta solo da donne, come il mondo intero. Infatti, in conseguenza degli avvenimenti più lontani nel tempo (linea 1) i maschi della razza umana si sono definitivamente estinti — e in questo ha un ruolo determinante Elisa, che come diverse altre giovani donne soffre di una “mutazione iperosmica” che provoca una accentuata sensibilità dell’olfatto, in senso quasi metafisico dal momento che la ragazza è in grado di annusare le cattive intenzioni degli uomini nei suoi confronti.
Come effetto collaterale, le “ragazze interrotte” (apprezzabile che Braggion non abbia recuperato il frusto termine “mutanti”) non concepiscono più figli di sesso maschile; e questa mutazione si può trasmettere irrevocabilmente anche solo con una trasfusione di sangue.
Mentre evidente è il conflitto narrativo della linea-1, più sfumato è nella 2. Ada (il nome richiama esplicitamente Ada Prospero, il cui primo marito fu Piero Gobetti, intellettuale, partigiana e prima vicesindaca di Torino dopo la guerra) è una sophista, cioè una studentessa/scienziata che, mentre lavora a un incarico di ricerca ricevuto dalla sua insegnante Gobetti (riferimento doppio, dunque) viene sorteggiata per diventare nutrice. Infatti, per esigenze riproduttive, la scienza della linea-2 è arrivata a dotare alcune femmine di organi che, pur non trasformandole in maschi, permettono l’accoppiamento. La nutrice è una donna in gestazione, ruolo che viene ricoperto per sorteggio all’interno della popolazione della comunità; ma Ada teme di non riuscire, a causa del nuovo impegno, a portare a termine la sua ricerca ad argomento storico/scientifico sulle origini del mondo senza uomini.
Nel testo ci sono solo accenni episodici al traumatico periodo di passaggio tra il mondo di “prima” (linea 1) e quello di dopo (linea 2), con conseguenti atrocità e anche con l’esplicitazione, da parte di Ada, di un senso di perdita, che però è compensato dai vantaggi di una società pressoché priva di conflitto violento.
Tematiche femministe sottendono sia la trama che l’idea di fondo, ma sbaglierebbe chi volesse vedere un qualche tipo di revanche sul maschio: il conflitto è tra un mondo di violenza e (si suppone per sottrazione) degradazione ambientale, e un mondo di cooperazione e sostenibilità in cui l’umanità vive a contatto, se non proprio in simbiosi, con le altre specie viventi. Nella linea-2 il conflitto non è assente, ma è mitigato dalla mancanza di violenza e da una “comunicazione introattiva” che materializza e rende visibile, anche a distanza, il pensiero: da una parte questo rende meno sensibili le distanze geografiche in una popolazione terrestre che non sembra abituata a continui spostamenti, dall’altra aumenta l’empatia grazie a una comprensione parzialmente svincolata dai limiti del linguaggio — linguaggio che dobbiamo supporre ancora vincolato alle sue origini storiche in società patriarcali.
Linea-2 è, in poche parole, un’utopia che non è basata su un nostalgico ritorno alla terra: è un pianeta post-cura, e la cura ha potuto avere inizio solo dopo l’abrogazione di violenza e forza come metodo di confronto. Questo ha comportato l’eliminazione del maschio della specie? Beh, è chiaro che siamo in un’opera di fiction, anzi di science fiction, quindi la trama è una metafora ontologica in cui le contraddizioni del presente vengono portate alle estreme conseguenze.
Inoltre, il lettore non deve dimenticare che l’evento traumatico nella linea-1 è un’operazione di autodifesa, come si capisce dallo svolgimento dei fatti: la diffusione della mutazione iperosmica è una contromossa, non un attacco preventivo. Se l’utopia di Romina Braggion può apparire estremista al lettore di oggi, lo invito a sospendere definitivamente l’incredulità e mettersi dalla parte di un’abitante della linea-2: l’epoca estremista, violenta e distopica, è la nostra.
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