di Jennifer Hamilton
da The Conversation / Academic rigour, journalistic flair
I punk (degli anni Settanta e Ottanta) non erano noti per il loro ottimismo. Proprio l’opposto, anzi. Scatenati in vari modi contro l’establishment, non c’era “nessun futuro” perché, secondo i Sex Pistols, i punk sono:
il veleno / Nella tua macchina umana / Siamo il futuro / Il tuo futuro.
Essere punk, era, per definizione, resistere al futuro. Al contrario, la definizione più basilare di Solarpunk – offerta dal musicista e fotografo Jay Springett – è che si tratta di un movimento di finzione speculativa, arte, moda e attivismo
… che cerca di rispondere e incarnare la domanda: «A che cosa assomiglia una civiltà sostenibile, e come arrivarci?»
A un primo passo, poi, il Solarpunk sembra capovolgere il principio centrale del punk. La sua attività è immaginare il futuro. Inoltre, se esegui una ricerca di immagini online per il termine “solarpunk” troverai metropoli colorate e verdeggianti, abbigliamento comodo di foggia neo-contadina e forse, un bimbetto in piedi accanto a un pannello solare di fronte a una yurta.
Come sono, dunque, i brillanti futuri immaginati dai solarpunk, degni del suffisso “punk”?
L’ottimismo del Solarpunk verso il futuro è il primo concetto che necessita una spiegazione complicata. Oltre ai punk originali, c’è un ampio corpo di studi che critica il pensiero positivo.
Femministe come Barbara Ehrenreich e Sara Ahmed, ad esempio, tracciano legami fra l’establishment capitalista e la felicità. Suggeriscono che l’ottimismo centrato sul futuro sia proprio al servizio del sistema contro cui si scagliavano la maggior parte dei punk del passato.
Sebbene ottimista, l’immagine solarpunk del futuro non si adatta perfettamente agli attuali regimi politici o sistemi economici. Adam Flynn, che si è autodefinito “ricercatore in generale”, sostiene che il movimento inizia con “l’infrastruttura come forma di resistenza”. I solarpunk sognano un sistema totalmente diverso di fornitura di energia, servizi essenziali e trasporto. Molto diverso dal colosso di strade e centrali a carbone in cui viviamo oggi.
In altre parole, i solarpunk resistono al presente immaginando un futuro che richiede un cambiamento sociale radicale. Radicale, forse, ma non radicalmente impossibile. Infatti, molte delle tecnologie e delle pratiche che i solarpunk introducono nel loro immaginario esistono già: l’energia solare e altre energie rinnovabili, l’agricoltura urbana, o l’architettura e il design organico. Come gli autori di fantascienza, i solarpunk rimescolano il presente per produrre un futuro alternativo.
Apocalisse o utopia?
In senso narrativo, il Solarpunk siede a tavola di fronte alla “Climate Fiction”. Negli ultimi anni, il termine cli-fi è passato da concetto marginale a genere di fiction commerciabile. Coniata in prima istanza da Dan Bloom, è cresciuta così tanto che gli studiosi sono in grado di produrre studi sulle sue convenzioni di genere. Ogni anno vengono pubblicati in questa categoria nuovi romanzi e raccolte di racconti.
La cli-fi, sia nel cinema sia nella narrativa, tende alla distopia. Per ciò che riguarda il cinema, guardate L’alba del giorno dopo, in cui New York è inondata e congelata dal caos climatico, e Snowpiercer, in cui gli sforzi per controllare il cambiamento climatico vanno drammaticamente storti. Per il testo, cercate Paolo Bacigalupi, The Water Knife, in cui la siccità ha devastato il sud ovest degli Stati Uniti. Sono storie di fallimento, disastro e collasso sociale. Rappresentano in modo critico l’apocalisse come catalizzata in qualche modo dal cambiamento climatico o ambientale: marea, tempesta di neve, siccità. La cli-fi ha appena sostituito le preoccupazioni precedenti (come la guerra nucleare) con quelle nuove (come la ingegneria climatica fuori controllo).
Nel contesto australiano, The Island Will Sink di Briohny Doyle e Clade di James Bradleyportano avanti questi temi. Ancora, si può vedere la cli-fi in romanzi scritti quando ancora la definizione non esisteva, in quello che Ken Gelder chiama “romanzo apocalittico rurale”, come le esplorazioni di Carrie Tiffany sulle tecniche di aridocolture fallite in Everyman’s Rules for Scientific Living.
Io insegno “cli-fi” in un corso di studi letterario, includendo i romanzi di Doyle and Tiffany e invito gli studenti a criticare la natura apocalittica del genere. È un problema il fatto che il futuro sia immaginato soltanto come disastro spettacolare o lento declino?
I solarpunk sostengono che il problema di immaginare un futuro così oscuro (o nessun futuro, per quel che importa) è che, mentre il fallimento può essere catartico, ostacola la possibilità di pensare a possibili alternative.
Come genere letterario, il Solarpunk ha i suoi predecessori. La quinta cosa sacra (TEA 1996) di Starhawk e Ecotopia di Ernest Callenbach (1975). Entrambe immaginano società anticapitaliste, de-urbanizzate e incentrate sulla coltivazione. Sebbene il testo di Callenbach non sia un’utopia perfetta (come se una cosa del genere esistesse), egli afferma la necessità di visioni future alternative in modo simile ai solarpunk. Nel cinema, il lavoro di Miyazaki Hayao fornisce un precursore mainstream per l’estetica e le sfide politiche del movimento.
Scoprire l’arcobaleno
Come categoria narrativa, il Solarpunk rimane un outsider. I suoi pochi autori auto-dichiarati descrivono la loro adesione al genere come una reazione positiva alla fantascienza cupa. Esempi in questo senso sono Biketopia: Feminist Bicycle Science Fiction Stories in Extreme Futures e Sunvault: Stories of Solarpunk and Ecospeculation. La narrativa Solarpunk è auto-pubblicata o supportata da piccole case editrici indipendenti, con recensioni contrastanti.
Su Instagram #solarpunk ha meno di 1.000 riferimenti. Tuttavia, le sensibilità estetiche della sottocultura stanno iniziando a emergere. Alcuni appassionati di moda postano selfie sperimentando tessuti morbidi, rossetti colorati e body piercing. Se lo Steampunk è “i gothic scoprono il marrone”, il Solarpunk è quando scoprono l’arcobaleno.
Su Twitter, l’hashtag è più comune. Esso raggruppa racconti auto-pubblicati, dichiarazioni di moda e anche casi in cui il progetto solarpunk potrebbe sfondare nel presente, come nel caso degli autobus elettrici. Sembra anche che, come i suoi predecessori Steampunk e Cyberpunk, il Solarpunk si diletti di cosplay.
È anche una questione politica. Andrew Dana Hudson dice che “postula un mondo di abbondanza di energia solare e poi sostiene che avremo ancora bisogno di punk. Nessuna tecnologia magica risolverà le cose per noi. Dovremo farlo nel modo più difficile: con la politica”. Essere solarpunk, quindi, è organizzare una resistenza al mainstream presente immaginando un futuro alternativo.
La domanda che mi rimane da fare è cosa differenzia un* solarpunk da un* ecosessuale, o una ecofeminista tecnopagana, o un* eco-afrofuturista o anche un* permacolturista? O, anche, da altri movimenti utopistici vestiti in modo colorato e politicamente orientati?
Le somiglianze abbondano, ma l’attenzione al cambiamento culturale che necessariamente accompagnerà la piena transizione alle energie rinnovabili è la caratteristica distintiva del Solarpunk.
È questo che trovo profondamente convincente nella sottocultura solarpunk. Di solito ci chiediamo “le rinnovabili possono sostituire i combustibili fossili?”. Si tratta di una questione importante, ma non affronta i legami[1] tra cultura ed energia. Invece i solarpunk chiedono “che tipo di mondo emergerà quando finalmente passeremo alle rinnovabili?” E i loro scritti, disegni, blog, Tumblrs, musica e hashtag stanno generando una risposta intrigante.
Traduzione di Silvia Treves
Jennifer Mae Hamilton è docente di Letteratura inglese e Ricerche nel campo interdisciplinare dell’ambientalismo femminista all’UNE, University of New England, ad Armidale (Australia). Il suo lavoro esplora la relazione tra meteorologia e strutture antropiche; è autrice di The Contentious Storm, eco-critica del Re Lear.
Note
[1] L’autrice si riferisce al saggio Living Oil: Petroleum Culture in the American Century di Stephanie LeMenager
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