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traduzione dallo spagnolo di Alice Croce Ortega
Serenella Iovino, Paesaggio civile. Storie di ambiente, cultura e resistenza, Il Saggiatore 2022, € 22,00

Serenella Iovino è attualmente una delle voci più note del pensiero ecocritico e delle scienze umane. Dalla pubblicazione di Ecologia letteraria: una strategia di sopravvivenza (2006, Milano, Edizione Ambiente), che ha introdotto gli studi di ecocritica in Italia, Iovino ha sviluppato una sua visione di ecologia letteraria o ecocritica, appunto, intesa come campo di studio interdisciplinare e come una “forma di attivismo culturale” che, combinando etica ambientale, critica letteraria e intento pedagogico, diventa uno strumento di consapevolezza critica.

Avvicinandosi alle posizioni del nuovo materialismo, che manda in cortocircuito l’idea binaria di natura-cultura, e alle metodologia della diffrazione, metafora concettuale elaborata da Donna Haraway e Karen Barad, Iovino legge e interpreta i paesaggi – che includono territorio e corpi, collettivi umani e non umani – come testi, storie materiali, corpi distesi conformati da materia e discorso o, come lei li definisce, storied matter.

Allo stesso tempo, tali corpi distesi intrattengono una stretta relazione con i corpi artistici e letterari che da essi sorgono. Si tratta di una lettura combinata di questi testi con e negli altri, cioè una lettura diffratta, nella quale “non solo sveliamo le trame nascoste e i significati di una realtà, ma amplifichiamo anche le voci spesso messe a tacere, di questa realtà”.

L’ecocritica, dando voce a ciò che è stato messo a tacere e mostrando ciò che è invisibile, agisce come una risorsa di resistenza e liberazione.

Ciascuno dei quattro capitoli che integrano quest’opera esamina uno o più paesaggi italiani ed è accompagnato da una o più parole chiave per lo più fluide e polisemantiche che, come ruscelli, percorrono la molteplicità di prospettive e discipline necessarie a interpretare gli storied matter e i correlati letterari che emanano dai paesaggi stessi.

Porosità è la parola chiave associata ai “corpi di Napoli”, esplorati nel primo capitolo. È poroso il corpo stesso della città che si erge su cave di tufo, materiale impiegato nella sua costruzione. Porosi sono i corpi che la abitano, per lo scambio reciproco di materia e idee. Porosa è la storia di Pompei, raccontata tanto dai suoi corpi pietrificati quanto dalle cavità e i vuoti lasciati dai suoi oggetti assenti. Porosa è La pelle, materiale e letteraria, nel romanzo omonimo di Curzio Malaparte, che ci presenta una Napoli distrutta dalla seconda guerra mondiale e vittima degli abusi dei “liberatori”, in un quadro antipastorale crudo e organico che si sovrappone alla visione romantico-arcadica del “giardino d’Europa” e la cancella. Questo quadro preannuncia l’altro antipastorale dei terreni contaminati dall’ecomafia, che per decenni ha smaltito tonnellate di rifiuti tossici nei dintorni della città con la collaborazione implicita ed esplicita di politici corrotti, imprenditori avidi e cattiva amministrazione, fino a creare la più grande area inquinata d’Italia.

Se Napoli è porosa, la Venezia del secondo capitolo è ibrida a causa della sua peculiare condizione di città sospesa sulla laguna, tra terra e mare: “un sogno faustiano”, una sfida agli dèi e, proprio per questo, ibrida anche in quanto “atto di hybris”. L’essere ibrida di Venezia si regge su un delicato equilibrio che i suoi amministratori del passato seppero “leggere” e mantenere. Tuttavia, l’equilibrio ha cominciato a incrinarsi all’inizio del XX secolo quando si decise di costruire, proprio di fronte alla città, il complesso industriale di Porto Marghera. Con il tempo questo complesso, conosciuto come “il Petrolchimico”, si è allargato e si è trasformato in una città tossica, una anti-Venezia costruita sui suoi stessi rifiuti inquinanti, “una mise en abyme materiale di tutto il sistema di inquinamento”. Così, attraverso la lettura di una città diffratta e combinata con l’opera di Thomas Mann, tra le altre, il topos letterario di Morte a Venezia si trasforma in metafora viva di questo storied matter, un testo che, interpretato correttamente, può rivelare le sue narrazioni di connivenze, silenzi e abusi di potere.

Il terzo capitolo esamina tre territori devastati dai terremoti: il Belice nel 1968, l’Irpinia nel 1980 e L’Aquila nel 2009. In tutti e tre i casi, alla distruzione repentina e devastante del terremoto fece seguito la “violenza lenta” dell’inettitudine, le cattive pratiche e la corruzione. Le onde sismiche e gli effetti catastrofici di tali azioni si sono sommati in queste aree e spesso hanno provocato molti più danni del terremoto stesso. Catastrofe qui è la parola chiave che indica la perdita d’innocenza degli eventi naturali quando vengono a contatto con certe dinamiche umane.

In questi casi – ma il discorso vale per tutti i “luoghi” – l’atto creativo dell’arte e della letteratura – e in definitiva, di tutte le narrazioni socialmente impegnate – diventa una risorsa imprescindibile per raggiungere ciò che l’autrice definisce “giustizia cognitiva” cioè “una forma radicale di giustizia basata sul diritto di conoscere e agire di conseguenza”. Narrare la catastrofe e le sue ferite è un modo di tornare a vivere, di ricodificare uno spazio (materiale e mentale) perduto, in definitiva, di trasformare “il lutto in cognizione”.

Questo accade ad esempio a Gibellina, uno dei paesi devastati dal terremoto del Belice (Sicilia). Gibellina si è trasformata in un maestoso laboratorio sperimentale d’arte e architettura all’aperto, la cui epitome simbolica è il Cretto di Alberto Burri, un’opera di land art che copre tutta l’estensione del paese completamente raso al suolo dal terremoto. Il Cretto è un territorio che si trasforma letteralmente in mappa, che rifiuta la sua scomparsa.

Per concludere, Iovino dedica l’ultimo capitolo alle Langhe, magnifico paesaggio vinicolo del Piemonte che racchiude nel testo storie di lentezza e violenza. Sono storie di viticoltori; di partigiani della resistenza che in queste terre si nascondevano durante l’occupazione nazifascista; di contadini e contadine le cui voci, raccolte dallo scrittore e partigiano Nuto Revelli e recuperate dall’oblio, narrano la violenza lenta di generazioni di povertà, indigenza, migrazione, superstizione, patriarcato e abusi. Un altro quadro antipastorale che, a partire dagli anni cinquanta, subì l’invasione abusiva del progresso e dell’industrializzazione, che hanno portato con sé altre storie sia di violenza e inquinamento che di resistenza e liberazione.

Paesaggio civile è un libro capace di muoversi con dinamismo nella complessa rete di ramificazioni e interconnessioni, sia diacroniche che sincroniche, create dai vari agenti che intervengono nel divenire del paesaggio/corpo/testo.

L’autrice maneggia con agilità e disinvoltura i presupposti metodologici multidisciplinari che danno corpo all’opera grazie alla sua capacità di tessere una trama dalle solide basi teoriche e stilisticamente creativa, disseminata di citazioni autobiografiche e appelli diretti al lettore. Questa trama, come avviene nella migliore poesia, cancella le frontiere tra forma e contenuto, tra personale e impersonale, tra teoria e prassi. Sublimando la citazione di Barry Commoner “tutto è connesso”, il libro stesso si trasforma, de facto, in un atto di liberazione e resistenza.

Raul Ciannella, trad. di Alice Croce Ortega

La recensione di Raul Ciannella si riferisce all’edizione inglese, “Ecocriticism and Italy”, che ha preceduto quella italiana

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