di Franco Ricciardiello

Il presente post contiene il testo dell’intervento di Franco Ricciardiello al ciclo di incontri “Odissea nel futuro”, nello spazio Agorà del MUSE, il Museo delle scienze di Trento, l’8 ottobre 2024.


Vent’anni fa, se qualcuno avesse definito ”distopico” un romanzo come Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, avrebbe provocato una tempesta di commenti indignati. Per dire come cambiano i significati delle parole, e le idee: “distopie”, “anti-utopie” o “utopie negative” (il termine distopia ha faticato a imporsi come definizione univoca) erano quelle opere scritte da autori e autrici estranei al genere letterario science fiction — autori che tuttavia ne conoscevano bene luoghi comuni e tópoi, e sapevano come piegarli alle proprie necessità, senza cadere negli stereotipi del genere avventuroso.

Le distopie “classiche” prefiguravano un futuro terrificante, a partire dai sintomi presenti nella realtà politica del secolo: il fascismo dilagante e la sua incarnazione peggiore, il nazionalsocialismo; l’orrore dello stalinismo e il suo tentativo di riscrivere la storia; il totalitarismo e le degenerazioni di una scienza fuori controllo: per intendersi, mi riferisco a opere come Noi di Zamjatin, Il mondo nuovo di Huxley, 1984 di Orwell, cioè la triade di anti-utopie esemplari alla quale si aggiungevano pochi altri titoli, tutti un gradino più giù nella scala della notorietà.

La percezione della distopia ha cominciato a cambiare all’inizio di questo nostro secolo, con un progressivo slittamento secondo lo schema:

Giochi di ruolo => young adult => neodistopico => fantascienza

Questa evoluzione inizia con Battle royale (1999) di Takami Kōshun e arriva a compimento con Hunger games (2008) di Suzanne Collins, e il grande successo di pubblico giovanile dell’adattamento cinematografico di quest’ultimo. Giustamente Stephen King ha scritto “Leggere Hunger Games [è] come giocare a uno di quei videogiochi spara-appena-si-muove”, qualificando il prodotto come YA perché difficilmente un adulto potrebbe soprassedere alla “pigrizia” dell’autrice in diversi aspetti della trama, non ultimo la costruzione del triangolo amoroso.

L’estetica dei giochi di ruolo si fonde così all’ambientazione distopica, e crea un il genere, o sottogenere, il “neodistopico”. Cosa rimane dell’anti-utopia? L’ammonimento sul futuro diventa un mero fondale d’ambientazione, la critica sociale si trasforma in generico libertarismo, la denuncia politica cede il posto all’avventura. In parole povere, il neodistopico si può riassumere con la formula “i videogames if-it-moves-shoot-it incontrano l’individualismo made in USA”.

Questo perché anche il sottogenere post-apocalittico della fantascienza è confluito nel neodistopico, al punto che alcuni lettori non riescono neppure a discriminare tra distopia (cioè una società futura oppressiva) e collasso sociale dovuto a una catastrofe naturale (per esempio la collisione con un meteorite, una devastante pandemia o l’innalzamento del livello dei mari). Il sottogenere post-apocalittico, dominato da autori anglosassoni, si è imposto come regola la dissoluzione, a seguito di un trauma a livello planetario, dei legami sociali, sostituiti da quel tutti-contro-tutti che è la versione moderna dell’homo homini lupus portato alla ribalta nel Seicento da Thomas Hobbes: per il grande filosofo inglese, la natura umana è egoista, dominata dall’istinto di sopravvivenza; una concezione pessimista dello stato di natura per cui se non esiste più legge, l’essere umano è pronto a danneggiare i suoi simili, a eliminare chiunque sia di ostacolo al soddisfacimento dei propri bisogni.

Tale premessa letteraria del post-apocalittico è però contraria a qualsiasi osservazione empirica. Leggiamo in un paradiso all’inferno (2010) di Rebecca Solnit che le catastrofi producono straordinarie comunità temporanee, paradisi tra le macerie della civiltà, dove le persone si sostengono a vicenda, senza alcuna autorità superiore. Non è ingenua utopia, bensì osservazione di casi verificatisi nella pratica: è dal tempo di Aristotele che sappiamo che l’homo sapiens è un animale sociale, e si realizza attraverso la relazione con i suoi simili.

Lo stato di guerra tutti-contro-tutti del neodistopico è un costrutto letterario, non un ammonimento sul futuro che ci aspetta.

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Gli estimatori del neodistopico considerano a posteriori il movimento cyberpunk degli anni Ottanta-Novanta come parte integrante dell’immaginario distopico. Molti suoi scenari gli sono effettivamente fortemente debitori, ma solo come fondale urbano degradato, natura compromessa e preminenza del potere economico su quello politico. Nessuno considera il fatto che quando il Movimento era allo zenith della sua forza, quando colpiva come un maglio la fantascienza dei tardi anni Settanta, che per usare parole di Bruce Sterling era “confusa, ripiegata su se stessa”, nessuno l’ha mai definito distopia.

Del cyberpunk ricordiamo oggi solo alcuni aspetti, ma dimentichiamo che Gibson e soci si consideravano “messaggeri di un futuro migliore”. Scrive il più lucido teorico del Movimento, Bruce Sterling, nella prefazione all’antologia La notte che bruciammo Chrome, che il valore dei racconti di Gibson “sta nella loro capacità di evocare un futuro credibile”:

Un compito difficilissimo, che molti scrittori di fantascienza hanno evitato di affrontare per anni. Questo fallimento intellettuale spiega lo spaventoso proliferare di storie sul dopo-olocausto, di fantasie di spada-e-magia, e di quelle onnipresenti space opera in cui imperi galattici crollano molto opportunamente nella barbarie. Tutti questo sotto-generi sono il prodotto del desiderio impellente da parte degli scrittori di non occuparsi realisticamente del futuro. […] Questo è un altro tratto distintivo della scuola emergente di scrittori degli anni Ottanta: la noia dell’Apocalisse. Gibson non perde il tempo ad agitare il dito o a torcersi le mani.

L’intento degli autori cyberpunk dunque, e dei lettori e lettrici che divoravano i loro testi, non era quello di ammonire contro un avvenire indesiderabile, ma immaginare l’evoluzione della tecnologia e della scienza nel futuro prossimo: tecnologia e scienza che comportano sia il pericolo di una “società del controllo”, che già Gilles Deleuze aveva previsto, sia l’antidoto democratico e open source contro la stessa.

Eppure, il neodistopico ha frainteso e distorto anche la lezione del cyberpunk. Perché?

Alla base del neodistopico, abbiamo detto, c’è uno scenario fantastico e scientificamente non provato, il cui postulato di fondo si può riassumere come: “il crollo della società capitalista comporta la dissoluzione dei vincoli sociali”. Questo è divenuto un assunto sine qua non che dal post-apocalittico è passato direttamente nel neodistopico.

Gli scrittori e i lettori che si ribellano a questo diktat limitato e mistificatore, citano di solito una frase di grande impatto del critico letterario statunitense Fredric Jameson, purtroppo scomparso pochi giorni fa: “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Questo aforisma sottolinea il fatto che secondo gli autori di fantascienza anglofoni la dissoluzione traumatica della società liberista-capitalista comporta la fine della civiltà, e per estensione la fine del mondo.

La frase di Jameson è tratta da The seeds of time (1994), e andando a verificare, troviamo un pensiero più complesso:

Sembra che oggi sia più facile per noi immaginare il completo deterioramento della terra e della natura che il crollo (la decomposizione?) del tardo capitalismo; forse ciò è dovuto a una certa debolezza della nostra immaginazione.

Trovo significativo che Jameson non abbia parlato esplicitamente di “fine del mondo”, che è definizione messianica o metafisica, ma di “completo deterioramento della terra e della natura”. In effetti, l’autodistruzione della razza umana comporterà per il pianeta meno problemi dell’estinzione dei dinosauri.

Questo esplicito richiamo alla natura si accompagna al riferimento alla “debolezza della nostra immaginazione”, che a sua volta ci rimanda al titolo di questo intervento, tratto da una frase dello scrittore e giornalista argentino Osvaldo Soriano: “Le classi dominanti odiano i sogni perché sono incapaci di generare una poetica del futuro.”

Il genere neodistopico è figlio di questa incapacità di immaginazione; si tratta naturalmente di un eufemismo, perché l’imperante “distopizzazione dell’immaginario” è funzionale a giustificare la teoria di una mancanza di alternative al capitalismo — la T.I.N.A. di Margaret Thatcher, There is no alternative [to capitalism]. Il capitalismo non sarebbe soltanto il miglior sistema di governo, ma l’unico possibile.

Il neodistopico fa presa soprattutto su giovani lettori, che non hanno mai conosciuto alternative al sistema del libero mercato; l’unico futuro senza capitalismo liberista che riescono a immaginare è uno scenario post-apocalittico. Il capitalismo monopolizza persino i modi in cui immaginiamo il domani.

Il neodistopico ci dice che “più Stato” equivale a “meno libertà”. I totalitarismi del ventesimo secolo (nazismo, stalinismo, fascismo) che hanno generato le distopie di Orwell, Huxley, Zamjatin, sono storia del passato; eppure le distopie che si scrivono oggi raccontano ancora un controllo sociale capillare grazie alla tecnologia, quando è provato già dai tempi del cyberpunk che la medesima tecnologia può essere utilizzata anche per sottrarsi al controllo. Vedere per esempio Little Brother (2008) e Homeland (2013) di Cory Doctorow, nei quali un gruppo di ragazzi sventa un complotto liberticida grazie alla stessa IT.

Uno dei più tipici rappresentanti dell’attuale sistema politico-economico globale, il tycoon Elon Musk, sembra incarnare il prototipo dell’eroe neodistopico. Appare come uno scherzo del destino che l’esplorazione dello spazio sia passata dalla New Frontier di Kennedy a SpaceX di Musk, la cui filosofia è riassumibile come “dovremo abbandonare la Terra che abbiamo devastato fino a renderla inabitabile all’umanità, per colonizzare altri pianeti”.

Questo del “seme tra le stelle” è naturalmente uno dei più longevi tópoi della fantascienza, ma dimostra, anche in questo caso, la mancanza di immaginazione del genere, che non riesce a elaborare una visione innovativa, una poetica per il nuovo millennio.

La conservazione della vita sul nostro meraviglioso pianeta è invece una delle basi del solarpunk, che ha a cuore non solo l’esistenza dell’umanità, ma anche la biodiversità naturale e le diverse culture umane.

* * *

Alla base di buona parte del neodistopico c’è un conflitto manicheo di una banalità disarmante: individuo contro Stato, libertà contro uguaglianza, identità contro differenziazione. Questi conflitti trasmettono messaggi tendenziosi: non esiste tecnologia avanzata senza controllo centralizzato, non esiste uguaglianza senza totalitarismo, non esiste progresso scientifico che non alimenti il potere. Il neodistopico propaganda la diffidenza nei confronti dello Stato, dell’uguaglianza e della scienza, in nome dell’individuo e di una libertà male intesa.

Non stupisce leggere nel neodistopico storie impegnate a denunciare il pericolo di uno Stato totalitario che soffoca le aspirazioni individuali, in cui l’uniformità sociale impedisce lo sviluppo delle capacità personali. Ma la realtà del mondo occidentale è quella di colossi finanziari-industriali che comandano più dei governi eletti, e di una competizione selvaggia che schiaccia i più deboli.

Ricardo Sánchez, direttore della rivista di critica Código Cine, sintetizza bene il passaggio dall’anti-utopia classica al neodistopico:

La distopia perde la sua capacità di infliggere qualsiasi danno, e acquista una motivazione ludica, che le permette non solo di essere metabolizzata nel flusso sociale, senza straniamento né lacerazione, ma addirittura offerta al capitalismo per essere prima oggettivata e poi commercializzata, come merce che i soggetti possono semplicemente consumare.

Queste ambientazioni scoraggianti hanno infiltrato la fantascienza, genere letterario già lacerato tra acritico iper-ottimismo tecnologico e altrettanto acritico catastrofismo. Tuttavia, questa deriva dell’immaginario non è stata accettata senza provocare reazioni.

Nel 2011 lo scrittore Neal Stephenson avvia presso l’Università statale dell’Arizona il progetto Hyerogliph, inteso a promuovere una science fiction che stimoli l’innovazione scientifico-tecnologica — uno dei caratteri distintivi della fantascienza fino al predominio del neodistopico.  Scrive Stephenson:

Un buon universo fantascientifico ha una coerenza e una logica interna che hanno senso per scienziati e ingegneri. Ne sono un esempio i robot di Isaac Asimov, i razzi di Robert Heinlein e il cyberspazio di William Gibson. Queste icone sono come geroglifici, simboli semplici e riconoscibili sul cui significato tutti sono d’accordo.

Si noti che anche qui si cita William Gibson come esempio di narrazione positiva.

Negli stessi anni della nascita del progetto Hyerogliph si sviluppava il movimento solarpunk, con un’iniziativa “dal basso” e diffusa in tutto il mondo: un’antologia di racconti brasiliani; una nuova estetica dell’illustrazione, contaminazione tra Art Nouveau e afrofuturismo; un Manifesto sul sito del progetto Hyerogliph; la nascita di gruppi sui social Reddit, FaceBook, Discord etc.

Tutte queste iniziative, che non avevano una regia unica, rispondevano a due esigenze:

  1. una letteratura meno lugubre, nella quale il pessimismo sia funzionale alla trama, e non il suo carattere principale;
  2. storie che siano capaci di immaginare un futuro, e strategie operative per renderlo possibile.

Cos’è dunque il solarpunk? Soltanto nuovo sottogenere della fantascienza, una definizione di moda? Leggiamo l’esaustiva definizione che ne dà l’omonima piattaforma Reddit in lingua inglese:

Il solarpunk va da un’immaginazione positiva del nostro futuro collettivo alla sua creazione: estetica, afrofuturismo, arte, cooperazione, fai da te, restauro ecologico, ingegneria, narrativa speculativa, ecofuturismo, giardinaggio, cupole geodetiche, bioarchitettura, green design, energia verde, pratiche indigene, comunità intenzionale, makerspace, scienza dei materiali, musica, permacultura, repair café, energia solare, sostenibilità, piantagione di alberi, pianificazione urbana, volontariato, stampa 3D…

Non solo un genere letterario, dunque, ma una vera e propria estetica, come testimoniato dal fiorire di illustrazioni presenti in rete, nelle quali spesso la catastrofe ecologica è già avvenuta: illustrazioni di città vegetali dove l’Art Nouveau si mischia alla tecnologia, e l’afrofuturismo  all’arte di arrangiarsi, per ricominciare tutti insieme — persone di qualsiasi colore, provenienza, condizioni fisiche, età, genere e identità sessuale, in comunità paritarie, animali umani e non, fauna e flora, la Terra tutta.

* * *

In questa sede mi occupo solo della componente letteraria del solarpunk, i cui caratteri cercherò di definire, benché siano per loro natura “in divenire”.

Leggiamo nel Manifesto italiano che il solarpunk esprime una visione politica complessa e aperta, ma chiara: utopista, inclusiva, antispecista, ecologista, anticapitalista, antirazzista, antipatriarcale, femminista. Si fa interprete di sentimenti e istanze che chiedono un progresso collettivo, organico, equo, ecologico, inclusivo.

Da dove nasce il suo nome?

Solar-: il sole è fonte primaria di energia, simbolo di vita; è l’energia alternativa ai combustibili fossili; è l’utopia che coltiva la speranza; solare è la luce del giorno, che si contrappone ai piovosi scenari post-urbani del neodistopico.

-Punk: la legittima ribellione al sistema di cose esistente, il rigetto del modello di sviluppo capitalista insostenibile, predatorio, letale, la scintilla utopica in grado di generare un mondo migliore.

Il solarpunk non predica un anacronistico “ritorno alla natura”, ma persegue un progresso consapevole, nel quale scienza e tecnologia, usate in maniera trasparente e democratica, ci consentano di raggiungere finalmente l’equilibrio con il pianeta e la vita che lo abita, nel rifiuto di separare ontologicamente l’essere umano dal suo ecosistema.

La letteratura solarpunk consta di racconti, di romanzi e di interventi critici. Il racconto è attualmente il suo terreno di elezione: i romanzi di genere sono pochi, dichiaratamente debitori dell’utopia e della climate fiction. In ogni caso, l’utopia è un riferimento chiaro, ma senza ingenuità narrative.

In Italia attualmente esistono due solide realtà che si richiamano al solarpunk.

La prima è la casa editrice romana Future Fiction, che traduce e pubblica letteratura di genere da tutto il mondo, soprattutto da paesi rimasti sinora ai margini del dibattito fantascientifico-utopistico, in Sudamerica, Africa, Asia.

La seconda è il collettivo che rappresento, Solarpunk Italia, nato nel 2021, presente nella rete con il sito omonimo — che pubblica recensioni, aggiornamenti, traduzioni, novità, critica e filosofia — e anche nei programmi editoriali di Delos Digital, casa editrice milanese leader nel settore ebook, che ha cominciato a pubblicare volumi su carta. In particolare, il sottoscritto ha curato in questi anni come editor una collana di racconti lunghi in formato ebook di autori e autrici italiani — ne sono usciti a tutt’oggi trenta numeri —  nonché quattro raccolte di racconti, sempre di scrittori italiani di provenienza diversa: alcuni dalla “scuderia” dell’editore, altri formati nel mondo della fantascienza italiana, altri ancora non hanno precedenti di scrittura “di genere”.

Si cerca ancora di definire i confini del solarpunk, i caratteri della sua estetica peculiare, il suo immaginario, svincolandolo dalle tentazioni di un futuro post-catastrofico.

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Termino con alcuni schemi di soggetti per racconti solarpunk, consapevole del fatto che una delle principali obiezioni di potenziali lettori è una presunta “assenza di conflitto”. Siamo di fronte a un fraintendimento del concetto di conflitto narrativo: questa espressione non si riferisce necessariamente una forte, drammatica contrapposizione, come potrebbe indurre a pensare la parola “conflitto”, tra personaggi buoni/cattivi.Il conflitto narrativo è una questione di dialettica tra due volontà diverse presenti nella trama, che si risolve soltanto nel finale della storia. C’è conflitto anche in una storia romantica, per intendersi.

  • All’interno di una piccola comunità umana (un condominio, un vicinato, un’unità di lavoro etc…) si presenta un problema che potrebbe evolvere in un grave pericolo; si confrontano due diverse possibilità di soluzione, una più tradizionale ma “costosa” in termini energetici, l’altra innovativa e sostenibile, ma più complessa e impegnativa.
  • I protagonisti scoprono accidentalmente un complotto / una speculazione / un evento imminente / un vizio di forma in un sistema, che rischia di sconvolgere le loro vite, si mobilitano con mezzi di fortuna per evitarlo, e ci riescono grazie a solidarietà reciproca.
  • Un gruppo di personaggi rimane isolato a causa di un evento (inondazione / incidente nello spazio / incidente in zona desertica etc.), e ha a disposizione solo mezzi di fortuna presenti nell’ambiente, quindi una tecnologia pre-digitale.
  • Una squadra è impegnata in un lavoro di salvaguardia ambientale / studio scientifico / ricerca archeologia etc. e si trova ad affrontare un problema che rischia di provocare una estinzione / cancellazione / distruzione dell’attività o dell’oggetto di studio; i protagonisti dovranno forzare i protocolli o l’ausilio dell’intelligenza artificiale per riuscire a evitarlo.
  • Un gruppo di sopravvissuti a una grave minaccia di estinzione deve affrontare il problema con procedure analogiche, alle quali non sono più abituati per mentalità; hanno successo ricorrendo a antiche pratiche di riparazione / recupero / riutilizzo creativo di materiali a loro disposizione.

Ovviamente, queste ipotesi di conflitto narrativo, che sono soltanto un esempio limitato di casistiche, possono intrecciarsi con altre sottotrame di rivalità personale, storie d’amore, tragedie e via dicendo.

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Per concludere, vorrei rovesciare uno dei principali preconcetti della fantascienza, cioè che sia un genere letterario che predice il futuro. Sappiamo che molte invenzioni, tecnologie e avvenimenti sono stati prefigurati da autori e autrici del passato, più o meno lontano — e uno degli incontri di questo ciclo è dedicato proprio alle “tecnoprofezie”: questa però è una caratteristica intrinseca della science fiction, ma non la sua funzione. Per ogni invenzione azzeccata, ce ne sono cento che non si sono avverate, né mai si avvereranno.

Il solarpunk non vuole immaginare il futuro, vuole agire perché il terribile avvenire distopico non si verifichi.

Le classi dominanti odiano i sogni perché sono incapaci di generare una poetica del futuro. Il solarpunk non vuole predire il futuro: vuole cambiarlo.

Franco Ricciardiello
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