di Giulia Abbate
Natassja Martin, Credere allo spirito selvaggio, trad. di Marina Karam, Bompiani 2021
Un saggio autobiografico su un’esperienza traumatica e quasi mortale si rivela anche un testo iniziatico, in cui l’autrice e protagonista delinea il racconto di un “nòstos”, un lungo e sofferto viaggio di ritorno verso la verità: quella personale è chiamata a sciogliersi in una più grande, e la resistenza dell’io verso questo passaggio si alterna allo struggente desiderio di unione.
Che cosa significa uscire dagli abissi in cui regna l’indistinto, scegliere di ricostruire altri confini con l’aiuto di nuovi materiali trovati nel profondo della notte indistinta del sogno? Nel profondo delle fauci spalancate di un altro diverso da sé?
Durante un viaggio sui ghiacci della Kamčatka, Martin viene assalita da un orso che la sfigura e poi la lascia mezza morta (ovvero viva). Il punto di vista parte dunque da una condizione di totale passività fisica: trasportata in elicottero, ricoverata prima nell’avamposto locale, poi trasferita in un ospedale più grande e in seguito in Francia, subisce una serie di dolorosi interventi ed è nelle mani di chi la cura, incapace di sopravvivere da sola. Eppure, la sua persona dilaniata non è affatto inerme: nella sua anima ha luogo una lotta poderosa, una viscerale riorganizzazione dell’esperienza e della visione di sé stessa e delle cose; non tanto e non solo a partire dal trauma, ma piuttosto dal vissuto dell’incontro con l’orso.
Man mano che lui si allontana e che io torno in me, riprendiamo il controllo di noi stessi. Lui senza di me, io senza di lui, riuscire a sopravvivere nonostante quello che è andato perduto nel corpo dell’altro, riuscire a vivere con quel che vi è stato depositato.
Martin procede in un percorso di guarigione fisica, al quale può dedicarsi in Francia, al sicuro e nell’alveo più avanzato della scienza occidentale. Qui, la donna rischia però di perdersi, di morire dentro restando incastrata in una mera sopravvivenza (oltre che nelle odiose spire di una medicina fredda e schiava della tecnica); man mano che riacquista le forze, scivola preda di un dolore interiore causato dall’incomunicabilità con chi ha intorno, e dal non riuscire a riconfigurarsi. Pesa la lontananza dal mondo primordiale, ma intensamente vero, che ella studia come antropologa, ma che già viveva in modo più profondo grazie alla sua famiglia aquisita di nativi siberiani. Quando se ne rende conto, dunque, Nastassja trova la forza di tornare: tornare in Siberia, attraversando la propria vulnerabilità, per sperare di riuscire lì a sedimentare l’esperienza in un modo che le consenta di riconoscere e accettare la propria anima profondamente cambiata.
È possibile vivere senza questa furia che pulsa nel nostro profondo, che sistematicamente minaccia di annientare tutto quanto? Bisognerebbe sempre essere sicuri di poter tornare. Tornare dall’altro mondo, come Persefone.
L’impresa di trovare la forza di farlo. Il viaggio di riavvicinamento alla steppa. Le conversazioni con i parenti siberiani, raffigurati nella loro misteriosa alterità, ma anche con un affetto che scalda il cuore. Le sensazioni e percezioni che la donna riacquista, in modo a volte graduale, a volte repentino. Tutto ha i crismi di una guarigione che al termine del testo è solo all’inizio, ma che almeno si scopre possibile.
Lo stile è narrativo, e scansa le forme della cosiddetta nonfiction, ormai svuotate da un cinismo figlio di un fragile narcisismo. Il racconto di Martin è spezzato, brusco: all’inizio è contratto da un dolore che esonda nella parola; poi resta comunque livido, non si scioglie, bensì va a porsi in un contesto, quello dei dialoghi con la famiglia che la aspetta, in cui ciò che si tace ha importanza quanto ciò che si dice, e il potere della parola è centellinato, in uno scenario naturale immane e apofatico.
“Credere allo spirito selvaggio” non è solo un titolo (in originale: “Croire aux fauves”, ottimamente introdotto da Antonio Franchini in prefazione), è anche la precondizione necessaria per capire e apprezzare questo libro. Chi non sa nulla di sciamanismo, o lo considera una vetusta bizzarria da primitivi, non ne trarrà molto, a parte qualche excursus sugli usi e i miti siberiani, pure interessante; chi invece abbia minima contezza del complesso di credenze e di usi attinenti a questo tema, e come logica conseguenza di ciò provi stima e amore verso tale radice del sapere umano, non potrà che apprezzare questa testimonianza sofferta e sincera quasi oltre il proprio stesso interesse.
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