Marco Casalino
Negli ultimi anni sulla scena educazionista italiana vi è un dibattito importante riguardo l’educazione diffusa e l’urbanistica ad essa collegata. In particolare, grande importanza riveste Paolo Mottana e la sua “Città educante”. Tuttavia, non si può non sottolineare come tutto ciò sia stato un tema sentito già da molto tempo prima nel movimento anarchico grazie a Illich e in particolare a Colin Ward.
Ward è stata una figura importante nel pensiero anarchico e ha approfondito molte tematiche: dall’architettura alla sociologia, dall’urbanistica alle teorie anarchiche.
In Italia grande rilievo agli scritti del pedagogista-urbanista viene dato dalla casa editrice Eleuthera che ha pubblicato e continua a pubblicare la bibliografia di Ward. Dal punto di vista divulgativo è da segnalare il grande sforzo di Francesco Codello, tra i fondatori della Rete per l’Educazione libertaria, nel divulgare il pensiero del suo maestro.
Tra gli scritti, nei quali affronta ampiamente tematiche educative, pubblicati in Italia sono da segnalare “Il bambino e la città”, “L’educazione incidentale”, “Anarchia come organizzazione” e i due saggi “Il ruolo dello Stato” e “A chi appartiene l’ambiente?”.
Le sue idee in ambito pedagogico sono strettamente collegate alla sua visione anarchica e non possono essere separate. In particolare, la sua visione da urbanista non può essere disgiunta da quella educativa.
La vera educazione è data, secondo Ward, dall’ambiente fisico e sociale in cui viviamo, mentre il sistema scolastico viene definito arido e polveroso e inadeguato alla comprensione della vita. Riferendosi alla realtà del Regno Unito, vide come il rapporto tra infanzia e ambiente fosse alienato tramite la polarizzazione tra i concetti di campagna e città da parte di moralisti e insegnanti […] arrivando di norma alla conclusione che per gli adulti sofisticati la città è un’indispensabile fonte di vita civilizzata, ma per i bambini la natura resta l’unica vera insegnante, poiché c’è qualcosa di davvero autentico e naturale nel trascorrere l’infanzia in un contesto rurale[1].
Per l’architetto e urbanista anarchico Colin Ward la “strada e la città hanno un ruolo educativo spontaneo, non convenzionale”[2]. Gli ambienti domestici, il quartiere, le piazze, le strade sono ambienti informali che contribuiscono in larga parte a valori educativi quali la libertà, la responsabilità, l’autonomia, la comunità, il confronto e lo scontro tra pari e intergenerazionale, la solidarietà[3]. Tuttavia, già dagli anni Settanta, Colin Ward si accorse di come questi valori si stessero progressivamente perdendo e venissero sostituiti. La città stava andando incontro a una profonda trasformazione a uso e consumo di un solo cittadino: maschio, automobilista, borghese di mezz’età, residente fuori città; la deformazione della città, avvenuta per rispondere alla domanda degli automobilisti ha impoverito l’esperienza infantile rispetto a quella di qualunque generazione precedente di bambini. L’età dell’indipendenza e della mobilità autonoma, l’età per il gioco nelle strade, secondo Ward, si è progressivamente innalzata.
Il dramma dei bambini e delle bambine, tanto negli anni in cui scrisse il nostro autore quanto oggi, è che la maggior parte di coloro che vivono nelle città, vivono un ambiente edulcorato, un contesto urbano in cui le caratteristiche tradizionali della cultura di strada non esistono più[4]. Purtroppo, la strada e le sue caratteristiche essenziali non vengono più insegnate ad architetti e urbanisti, né tanto meno ai cittadini e noi adulti la rifiutiamo sforzandoci di tenervi lontani anche i bambini. Ward allora, da urbanista, ci domanda se non sia meglio educare le nuove generazioni al funzionamento delle città proprio attraverso l’uso della strada. Ed allora “la pianificazione urbanistica della città deve tenere presente che i bambini devono poter usare la città, perché nessuna città è governabile se i cittadini non la sentono propria”[5], inoltre “una città che si occupi davvero dei bisogni dei bambini dovrà far sì che l’intero ambiente sia per loro accessibile, perché, che siamo invitati o no a farlo, loro useranno l’intero ambiente” [6].
Ward, in Educazione incidentale, ci provoca proponendoci di trasformarci in pedagoghi ateniesi, mettendoci tuttavia in allerta. A suo parere vi sono alcuni ostacoli per arrivarvi. Il primo vero e proprio ostacolo non sono gli orari scolastici sconvolti da tale pratica o il numero di bambini facenti parte del gruppo, ma è la responsabilità legale dell’insegnante. Basti pensare quanto è attuale questo discorso e quanto è probabile che si finisca per spaventare i più cauti, convincendoli a non fare nulla all’esterno delle sicure mura scolastiche. L’insegnante osservato da Ward si pone dunque la seguente domanda “Se qualsiasi cosa andasse storta lì fuori sarebbe esclusivamente una mia responsabilità, perché mai dovrei assumermi un tale rischio? “[7]
“La città stava andando incontro a una profonda trasformazione a uso e consumo di un solo cittadino: maschio, automobilista, borghese di mezz’età, residente fuori città“
L’altro ostacolo che condiziona l’insegnante rimanda alla tipologia degli argomenti da presentare agli studenti. Si possono affrontare temi controversi? Quali? Ward ci risponde dicendoci che è difficile pensare a una qualunque questione riguardante l’ambiente urbano che non sia controversa […] L’insegnante può incappare nella stessa noia e indifferenza che aveva sperato di superare, oppure può coinvolgere la classe nelle problematiche e nei conflitti in atto, e così rischiare di essere criticato, censurato, sospeso, a seconda di quanto spinta sia la sua dissennatezza o la liberalità dei suoi datori di lavoro.
Riprendendo le idee di Goodman, contemporaneamente a Illich e anticipando sicuramente Mottana, Ward immagina un percorso educativo privo di un unico edificio scolastico e costituito, al contrario, dagli edifici culturali, produttivi e commerciali della città: “la buona proporzione tra allievi e insegnanti è economicamente sostenibile grazie all’assenza di un edificio scolastico, anche se sarà necessario reperire nello spazio comunitario – per esempio in una biblioteca, in un istituto universitario o in una stazione dei pompieri – un ufficio centrale e sedi distaccate per i tutor. Gli insegnamenti basilari che concernono l’alfabetizzazione e la matematica verranno svolti in corsi formali, ma per tutto il resto si fa ricorso alle risorse offerte dalla città” [8]. Per poter svolgere la propria attività verso questa direzione, una scuola dovrà vivere la città attraverso gite esplorative.
Nel libro “La pratica della libertà” Ward scrive che “l’esigenza di creare campi-gioco per bambini è nata a causa dell’alta concentrazione urbana e del pericolo costituito dal traffico veloce. La risposta a questo bisogno è consistita nel fornire uno spiazzo di cemento e dei costosi attrezzi di ferro, altalene, dondoli, giostre, che sono indubbiamente divertenti (anche se i bambini finiscono presto per annoiarsi a causa della loro univoca possibilità di utilizzazione) ma non richiedono alcun apporto creativo o di fantasia da parte dei bambini e non possono venir utilizzati nell’ambito di attività spontanee o di gruppo. Le altalene e le giostre – continua Ward – possono essere utilizzate in un unico modo che non lascia spazio alla fantasia, non permette lo sviluppo di abilità né l’imitazione delle attività degli adulti, non richiede alcuno sforzo mentale e quasi nessuno sforzo fisico. Per questo vengono progressivamente sostituite da attrezzature più semplici che permettono una maggior varietà di utilizzazioni, come le impalcature su cui arrampicarsi, i pali di legno, i percorsi a gimcana o da commando, le sculture per giocare o grosse costruzioni a forma di nave, trattore, treno, autocarro. Ma anche questi permettono una gamma ristretta di attività, per una sfera d’età molto limitata […] Non c’è da stupirsi se i bambini trovano più interessante la strada, gli edifici abbandonati, i depositi di rottami”[9]. Wardne L’educazione incidentale, arriva a definire i progettisti di parchi e campi gioco come usurpatori delle capacità creative dei bambini, realizzando strutture finalizzate al gioco invece di mettere disposizioni materiali che permettano ai bambini di costruirsi il proprio gioco[10]. Se osservassimo davvero come i bambini usano l’ambiente, scrive, avremo un’idea più chiara di come dovremmo adattarlo al loro.
Guardando alle nostre città, quando ci si sposta dalle periferie al centro non si può che concordare con Ward quando afferma che “ogni spazio delle nostre città è adibito ad uso industriale o commerciale, ogni chiazza di erba è protetta o recintata […]”.
Per terminare riporto un’ultima citazione tratta da L’educazione incidentale:” vogliamo considerare il bambino come un gene nei particolari di persona o come qualcuno che diventerà un adulto? In tutto il mondo ci sono città segnate da una terrificante assenza di quel profondo rispetto che noi sentiamo di dovere i bambini, ma ci sono anche città in cui è incredibilmente impervio per un bambino entrare a far parte di un mondo adulto fatto di libertà e di responsabilità. In un certo senso nelle città occidentali troviamo il peggio di entrambi questi mondi.
Marco Casalino
Note
[1] L’educazione incidentale, pag. 24, Colin Ward
[2] Il bambino e la città, op. cit.
[3] Animali urbani. La città come habitat. Benedetta Cappellini. Tesi di laurea.
[4] L’educazione incidentale, pag. 78, Colin Ward
[5] Il bambino e la città, Colin Ward
[6] L’educazione incidentale, pag. 113, Colin Ward
[7] L’educazione incidentale, pag. 83, Colin Ward
[8] L’educazione incidentale, pag. 99, Colin Ward
[9] Anarchia come organizzazione, Colin Ward
[10] L’educazione incidentale, pag. 113, Colin Ward
Comments are closed