Il titolo completo di questo saggio originale e destabilizzante è “Paura del pianeta animale. La storia nascosta della resistenza animale”. Scritto dallo storico Jason Hribal, curato da Barbara Balsamo e Silvia Molè, arricchito da una introduzione di Jeffrey St. Clair, il saggio è pubblicato dalla battagliera Ortica Editrice, di cui consiglio di esplorare il catalogo: spinoso (appunto), ma con un suo disegno e una sua ratio.
Ecco la sinossi del saggio:
L’osservazione costante e attenta di animali e gruppi di animali all’interno di zoo e altre strutture detentive ha consentito a Hribal di ridefinire il concetto di resistenza da una prospettiva animale fino a poter affermare che gli animali hanno consapevolezza e relazioni sociali e che la loro disobbedienza, ribellione, aggressività attiva o passiva, diffuse, frequenti e persistenti sono la dimostrazione di scelte determinate, resilienti; sono le azioni di attori politici che prendono il loro spazio per rivendicare desideri di libertà. Sfruttati e abusati in tutti i settori della vita sociale umana, gli animali hanno voce e volontà (per quanto soffocata) e stanno di fatto facendo la storia. Questo testo fa emergere questi atti quotidiani universalmente diffusi ma silenziati e distorti. Conoscere, osservare e interagire con il mondo animale, con le diverse società e individualità animali contribuirebbe a rivalutare e rendere effettivi valori come la solidarietà, la democrazia, la libertà. Contribuirebbe a far nascere una nuova cultura di co-esistenza e pace.
La trovo una sinossi puntuale e fedele: per la quasi totalità dello spazio, l’autore racconta infatti i tentativi degli animali prigionieri di fuggire, ribellarsi, aggredire i propri domatori e addestratori, in una sequenza in crescendo, dal ritmo estenuante. Il testo è diviso a seconda delle specie in cattività, abbiamo quindi i casi degli elefanti, delle scimmie e dei mammiferi marini, con focus sulle orche.
Alla ribellione dell’animale segue la repressione umana, alla quale spesso la bestia reagisce con una ribellione più forte e violenta, chiaro segno di disperazione, seguita da una violenza ancor più brutale da parte di domatori, “addestratori”, acquari, circhi e così via, fino a culminare in uccisioni reciproche, che nella forma umana sono spesso spettacolari esecuzioni pubbliche.
Si tratta di una successione, come ho già detto, davvero estenuante, che a tratti fa venire voglia di chiudere il libro a causa della ripetitività. Bisogna però proseguire, perché questo effetto è uno dei punti chiave della lettura: a un certo punto, emerge un certo orrore dalla spirale iterativa e senza fine di una relazione tossica e ingiusta, basata sulla sopraffazione violenta.
Non è oggi più pensabile credere alle menzogne dei circhi e degli acquari, che parlano di amore tra gli animali e gli “addestratori”, di divertimento nei giochi, di sicurezza e vita confortevole per bestie che sono semplicemente e brutalmente prigioniere.
Contraltare di questa bugia dalle sfumature positive e rassicuranti c’è quella ben evidenziata da Hrabal: laddove la ribellione animale è identificata sempre come pazzia, raptus, furia cieca e illogica.
La resistenza non è un disturbo psicologico. In realtà, spesso si tratta di un momento di spiccata lucidità. Ciò non significa affermare che Tilikum e altri animali non soffrano di depressione clinica o di disturbi legati allo stress. Il punto, casomai, è che gli animali in cattività hanno usato la loro intelligenza, ingegnosità e tenacia per superare le situazioni e gli ostacoli che sono stati messi di fronte a loro. Le loro azioni sono state intenzionali e dirette a uno scopo. Se non altro, questi animali sono psicologicamente forti, non deboli. Scelgono di reagire.
(Curioso come tutto questo non suoni poi così distante da ciò che succede tra umani, vero? Schema ben noto: ai fini della sottomissione totale, quello che funziona su una categoria debole o circoscritta di individui viene poi tentato, con gli opportuni arrangiamenti, su gruppi sempre più ampi e rilevanti di popolazione.)
La capacità di molti animali di scegliere di resistere è validata dalle recidive: certo, non tutti gli animali sono capaci di reagire, ma l’autore segue alcuni individui più risoluti, in anni di tentativi ripetuti, che non sono scoraggiati dalle punizioni. Impressionanti le descrizioni degli agguati che le orche tendono agli “addestratori”: capaci di cogliere il momento in cui gli umani sono distratti o esposti a bordo vasca, gli animali collaborano per gettarli in acqua, dove lavorano insieme per affogare i loro aguzzini. E se anche questo ci appare un comportamento meramente istintuale, è perché da perfetti figli della modernità abbiamo appreso la lezione di Cartesio, secondo la quale l’animale è macchina organica, una res che non ha nulla di intelligente ma agisce in qualità di meccanismo fatto di carne, complesso ma comunque primitivo, e rispondente a stimoli esterni in modo automatico e preordinato, senza nessun tipo di vita interiore.
Questa lezione era sconosciuta nel Medioevo e fino alla prima modernità, come argomenta la brillante introduzione di Jeffrey St. Clair: “Elogio degli animali infami”. (L’introduzione è leggibile per intero sul sito della casa editrice Ortica, insieme a qualche pagina del Prologo, cliccando in fondo, su “Alcune pagine”.)
“Elogio degli animali infami” è una sommaria e arguta panoramica dei processi medievali agli animali. Questo tema non manca di suscitare a noi nativi cartesiani un moto di ironia, nei confronti di quella che potremmo indendere come ingenuità da secoli oscuri. Se non fosse che il processo all’animale presuppone una sua agentività, una sua capacità di scelta e persino di libero arbitrio; e prevedeva un difensore che lavorasse in favore della propria parte: la causa animale.
Quanti scimpanzè, quanti elefanti, quante vacche, quanti pulcini sono oggi difesi da un’avvocatura? Visto che in fondo sono macchine di carne per Cartesio, e merce da reddito per il capitalismo neoliberista, il racconto di St. Clair dovrebbe invece farci pensare, e, direi, anche un po’ vergognare.
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