LUCA MERCALLI presiede la Società Meteorologica Italiana, associazione fondata nel 1865, dirige la rivista Nimbus e si occupa di ricerca sulla storia del clima e dei ghiacciai delle Alpi. Ha studiato scienze agrarie all’Università di Torino, con indirizzo Uso e difesa dei suoli e agrometeorologia, e ha approfondito la preparazione in climatologia e glaciologia in Francia, tra Grenoble e Chambéry, dove si è laureato in geografia e scienze della montagna. Svolge intensa attività didattica per scuole e università e di informazione come editorialista per La Stampa, dopo vent’anni a La Repubblica; scrive anche su Donna Moderna e Gardenia, con un attivo di migliaia di articoli. Ha condotto circa duemila conferenze e in televisione fa parte dello staff di Rai3 – Che tempo che fa, oltre a collaborare con la Radio Televisione Svizzera Italiana e il Climate Broadcast Network dell’Unione Europea, gruppo di presentatori meteo esperti in comunicazione del rischio climatico e ambientale. Insegna Sostenibilità ambientale all’Università di Torino. È consigliere scientifico dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). Tra i suoi libri: “Filosofia delle nuvole” e “Che tempo che farà” (Rizzoli), “Viaggi nel tempo che fa” e “Non c’è più tempo” (Einaudi), “Prepariamoci” (Chiarelettere), Premio Selezione Bancarella 2012, “Il mio orto tra cielo e terra” (Aboca Edizioni), “Uffa che caldo!” (ElectaKids)
da Nimbus e dalla biografia sul sito ChiareLettere.
Dottor Mercalli benvenuto sul sito Solarpunk Italia.
Questa prima domanda è rivolta all’uomo Luca Mercalli e non allo scienziato: cosa prova, nel suo intimo, quali sono le emozioni più profonde di fronte allo sfacelo ambientale a cui stiamo assistendo?
Direi la frustrazione, è la parola più corretta, perché lo sfacelo purtroppo avviene pur avendo tutti i mezzi per evitarlo e tutta la conoscenza per esserne consapevoli.
Potrei essere meno inquieto se fosse qualcosa di nuovo, appena emerso, oppure qualcosa che non conosciamo; ma il tema del rischio ambientale è noto ormai da cinquant’anni e lo stiamo semplicemente ignorando e anzi, continuiamo dritti nella direzione del collasso della società. Quindi questo crea proprio questo genere di frustrazioni: avere tutti gli strumenti per evitare un problema e finirci dentro alla fine, volontariamente. È un po’ come andare in giro per strada in un assembramento, apposta senza mascherina, quasi come dire “Caro virus vienimi incontro, sono qui pronto”; e noi stiamo facendo la stessa cosa anche con i cambiamenti climatici, con la distruzione della biodiversità, con l’inquinamento dell’acqua, dei suoli, dell’aria e così via.
C’è un sottogenere dell’immaginario fantascientifico, la “climate fiction”, che da qualche decennio racconta le conseguenze della civiltà industriale sul riscaldamento globale. Si sono cimentati con il tema anche grandi autori non etichettabili in un genere, come Ian McEwan, Doris Lessing e Michael Crichton. In Italia, Bruno Arpaia ha raccontato in “Qualcosa, là fuori” un’odissea di sopravvissuti guidati da donne-soldato, che dall’Italia soffocata dal disastro climatico cercano di raggiungere la Scandinavia: una toccante allegoria delle migrazioni attuali. Lei stesso ha scritto un racconto climate fiction intitolato “20841” e pubblicato su “L’Alpe”, nel 2002, una visione di civiltà legata a un domani molto realistico e conseguenza di decenni di distruzione ambientale.
Da sempre l’impegno degli scrittori ha rappresentato una forma di mobilitazione dell’opinione pubblica contro ingiustizie, pericoli, dittature.
Lei pensa che una climate-fiction militante italiana possa influire sul dibattito politico nel nostro paese, che in questo momento non tocca che marginalmente le questioni ecologiche?
Penso che possa aiutare ma che non sia più di tanto determinante. Gli appelli ormai a occuparsi della questione ambientale sono arrivati ai vertici delle istituzioni, il problema è che non vengono applicati. Quindi non è solo questione di far sapere come accadeva anche in passato, denunciare qualcosa anche attraverso la letteratura. Ormai qui è questione di essere efficaci, di voler trasformare gli annunci in fatti concreti, che tra l’altro sono di difficile soluzione perché non riguardano un unico problema, se vogliamo più facile da affrontare. Si parla di un totale cambiamento degli assetti della vita quotidiana delle persone di tutto il mondo. L’uso dell’energia, l’uso delle risorse naturali, il riciclo dei rifiuti, la crescita demografica, la crescita economica. Stiamo veramente considerando l’insieme delle modalità di vita di questa nostra società. Sicuramente, ben venga anche la letteratura a dare una mano ma, ormai oggi è difficile trovare una soluzione vincente, praticabile, perché sono state provate un po’ tutte. Gli appelli ad agire arrivano dal segretario generale delle Nazioni Unite in modo forte, drammatico. L’ha detto chiaro António Guterres, per esempio, che stiamo andando incontro al suicidio della specie, comportandoci così. Abbiamo ascoltato appelli autorevolissimi come quello di Papa Francesco con l’enciclica “Laudato sì’2”, uscita nel 2015. Non hanno sortito alcun effetto. C’è qualcosa di più profondo, a mio parere, c’è un rifiuto di occuparsi del problema a livello antropologico. Sono prima di tutto le persone, la società, non c’è una mobilitazione di massa. C’è una nicchia che finora si è dimostrata sensibile a questi argomenti.
Sempre a proposito di marginalità della questione ambientale, nella rubrica “Terra, uomini e clima” di Con, il mensile dei soci Coop, nell’edizione di luglio/agosto 20193, lei si interroga sulla fragilità del voto verde in Europa e, nello specifico, sulla mancata presa di posizione ambientalista italiana con un misero 2,4% di voti alle europee del maggio 2019. I giovani, gli stessi di Fridays for Future, sono stati grandi assenti poiché “non vogliono avere a che fare con la politica”. Quale potrebbe essere una soluzione per motivare gli italiani, di qualsiasi età, a una doverosa consapevolezza ambientale?
La compagine politica italiana non ha fornito un’alternativa valida su questi temi e questo sicuramente ha avuto a che fare con una scarsa partecipazione dei giovani alla politica in questo senso. Ma a loro, che sono molto contento di informare e spingere all’azione, ho anche detto che a questo punto, se il partito che si occupa di futuro e di ecologia non c’è, possono anche fondarlo. Sono tanti, uno strato sociale che rappresenta alcuni milioni di persone, quindi se questo partito non c’è che lo creino e avranno anche il mio voto.
Parliamo di Recovery Plan: quali dovrebbero essere i punti da inserire nel piano e cosa si aspetta realisticamente da questo governo?
Questo non sono in grado di giudicarlo, nel senso che è tutto ancora così confuso, già a livello europeo. Vero che sui fondi che vengono erogati in seguito alla pandemia si è deciso che una larga fetta abbia dei connotati verdi, cioè sia investita in azioni per la sostenibilità ambientale. Però è presto per giudicarlo, vorrei un elenco preciso e non c’è, non sono in grado di sapere come verranno spesi, se saranno spesi bene. Purtroppo tutto questo sta alla competenza degli organi di governo e troppo spesso posso solo dire che noi che ci occupiamo di questi argomenti non sediamo mai a questi tavoli. Non ho ricevuto richiesta per sapere “Cosa faresti, dove li metteresti questi denari”. Né i miei colleghi del piccolo settore nel quale lavoriamo che però riguarda un grande problema: piccolo settore disciplinare ma grandissimo problema, quello della sostenibilità ambientale. Non è che sono stato convocato al tavolo di discussione di come si usano i fondi europei.
Nell’edizione di novembre 20204 della sua rubrica su Con auspica, cito dall’articolo, “un ripensamento del traffico aereo con l’attribuzione dei reali costi ambientali associati alle emissioni per km percorso e passeggero trasportato. Così si volerebbe solo per motivi validi e non perché costa poco”. In questo modo però volerebbe solo chi può permetterselo. Non crede che l’ambiente sia un valore inestimabile e si debba tutelarlo anche con restrizioni razionali, oltre che economiche? Viaggiare per piacere oppure per necessità, lavoro o salute per esempio, sono situazioni ben diverse.
Verissimo, infatti ho rinunciato a volare da quasi tre anni ma dico che il volo è pur sempre qualcosa di importantissimo in certe situazioni della vita e mi riservo di utilizzarlo in questo caso.
La carbon tax è qualcosa di assolutamente democratico perché agisce sul principio “chi inquina paga”. Se un viaggio aereo inquina molto, è giusto pagare molto, non fare differenze tra i motivi.
Sono nato nel 1966. Quando ho cominciato ad avere l’età di un ragazzino, mio padre mi disse “Un giorno può darsi tu voglia andare a studiare in America. Comincia a mettere i soldi nel salvadanaio oggi, perché il volo costa molto e ci vorranno molti anni. Ho fatto così, ho messo veramente i soldi nel salvadanio e la prima volta che sono andato negli Stati Uniti per lavoro e studio, non ci sono andato per vedere le vetrine a New York, ho pagato un biglietto aereo che allora (si parla dei primi anni Novanta), costava molto più caro di oggi. Qual è il problema? Ci sono un sacco di cose che costano care, se diamo loro il valore opportuno ciascuno farà i sacrifici per potersele permettere. Ma almeno darà un valore a quello che fa, compreso il danno ambientale. Anche il mio viaggio di studio negli Stati Uniti è costato 2000 kg di CO2 fossile e io li ho pagati allora. Oggi non è giusto che i voli low-cost siano detassati e il combustibile per gli aerei non sia sottoposto a tassazione ambientale, perché questo invita le persone a usare il volo come se fosse l’autobus della propria città, sminuendone sia il grande valore tecnologico e sia anche le conseguenze. La mia opinione è che con la carbon tax intanto si mette a posto tutto dando il reale valore del danno ambientale, le cosiddette esternalità negative. Poi volendo ci sono tanti aggiustamenti che si possono trovare. Per esempio se si dimostra che si va a fare un viaggio per motivi di salute o di studio, cosa facilmente dimostrabile, si possono pensare tariffe differenziate o che si abbia una volta all’anno un volo a prezzo ridotto e che via via che ne fa di più aumenta la tariffa. Ci sono tante formule che potremmo ideare. Il concetto è: oggi siamo esattamente all’opposto. Il volo fino a prima della pandemia veniva usato come se fosse stato la metro. Non va bene.
Con questa domanda mi lego alla precedente e alla successiva. I paesi emergenti sono, a vari stadi, nella situazione di voler vivere all’occidentale. Come potremo negare loro questo diritto, pur in nome della salvaguardia ambientale, quando l’occidente colonialista e consumista infierisce in ogni angolo del globo da secoli?
Verissimo, però mi sembra che ci sia sempre un’asimmetria di visione tra quelli che sono i rapporti tra noi, cioè otto miliardi di rappresentanti della specie homo sapiens, e i rapporti tra homo sapiens e le leggi fisiche che governano il mondo. Torno nuovamente a quello che ha detto António Guterres, segretario delle Nazioni Unite: “Stiamo facendo guerra alla natura”. È un suicidio perché vince lei. Allora che senso ha continuare a recriminare, “tu hai fatto, tu eri…” A un certo punto, se il mare aumenta di due metri, che tu sia un paese povero o ricco, l’acqua ti entra in salotto. Punto. Questi sono fatti, fatti fisici, con i quali non si può negoziare. Non ci si siede in parlamento e all’Oceano Pacifico gli si dice “Fermo lì! Tu da me non sali perché io sono stato colonizzato…” È giusto che dal punto di vista politico ci sia un negoziato, chi paga, chi aiuta, ma non sul fatto che non si debba agire. Si deve agire perché siamo tutti sulla stessa barca e se la barca affonda, affondano i ricchi come i poveri. Magari qualche ricco si salva per qualche mese di più ma non è in un mondo ostile e invivibile i ricchi possono passarsela bene indefinitamente. Se la passano bene per un anno, due, ma alla fine il rendiconto delle leggi di natura arriva per tutti. Se fa caldo e ci sono 55° e c’è la siccità, becca la Francia come l’Arabia Saudita.
Secondo i World Population Prospects, nel 2050 saremo 9,7 miliardi di persone. Nella sua rubrica del dicembre 2019 di Con, cita l’allarme curato da William Ripple dell’università dell’Oregon e sottoscritto da 11.000 scienziati. Alla voce “popolazione”, Ripple propone consolidate politiche che rafforzano i diritti umani e diminuiscono la natalità, come i servizi di consultorio familiare, la parità di genere, l’educazione femminile.
Invece, la sezione online di Avvenire in un articolo del 24 luglio 2020, si interroga preoccupata sulla questione denatalità, individuando tra le cause, cito dall’articolo “scelte di donne inserite nel mondo del lavoro che, per la realizzazione di progetti e aspettative di carriera, spesso rinviano l’età della procreazione.”
Non le sembra che, esaminando i due aspetti contrapposti della questione demografica, ci sia una visione distorta e perniciosa di attribuzione del problema al genere femminile? Gli esseri umani nascono o non-nascono da gameti maschili e femminili.
Torno di nuovo alla visione distorta di rapporti tra rappresentanti della specie homo sapiens e tra la specie e il resto del mondo. Tutte queste cose non hanno alcuna importanza nei confronti della capacità di carico del pianeta. Ovvero: se il pianeta può fornire cibo, materie prime, spazio a un numero X di persone, in maniera dignitosa ovviamente, e non ce n’è abbastanza per fornirne a un numero più grande, non mi interessa maschi femmine, responsabilità, abitudini… Non mi interessa! È una questione fisica. Tonnellate di materiali… Basta! Tonnellate di grano da mangiare, di acqua da bere, di pesci da pescare, di foreste da abbattere… Non è una questione di visione interna alla specie. Nel momento in cui si fanno i calcoli si vede che questo mondo è sovrappopolato e la gente vive male: mal distribuite le risorse, a qualcuno troppo e molti niente. Complessivamente l’impronta ecologica è superiore alla capacità del pianeta di sostenerla. È questo che conta. Se siamo troppi si potrebbe diminuire l’impatto, e stare tutti meglio, riducendo il numero. Come? Uno dei modi più gentili di farlo è lasciar fare proprio alle donne, con la loro libertà. L’assurdo è che oggi non si va a guardare il problema dell’eccessiva natalità di donne completamente sottomesse. Abbiamo nelle società patriarcali dell’Africa, donne costrette a fare nove figli, donne costrette a fare figli a vita, che farebbero volentieri due figli se lasciate libere di decidere della loro sorte.
Quindi, le stesse Nazioni Unite dicono che nei diciassette goal di sostenibilità, la parità di genere già da sola sarebbe sufficiente a ridurre moltissimo l’eccesso di natalità nei paesi poveri. Mentre nei paesi ricchi va bene così, lasciamo le cose come sono. Invece di dire dobbiamo rifar partire la natalità. In Italia siamo a crescita zero o anche negativa? Va bene, lasciamola così. Non abbiamo bisogno di aggiungere altre persone in un paese già sovrappopolato. Siamo sessanta milioni in un territorio misero di 302.000 km2. Quanti vogliamo diventare? Se poi ci sono problemi temporanei, ricordiamo che sono solo temporanei. La popolazione invecchia ma poi muore. Dopo ci si ritrova un po’ meno, più giovani e si decide di rimanere a un livello stabile. Si potrebbe benissimo dire “lascio la natalità scendere come adesso”; abbiamo le generazioni anziane che nei prossimi decenni andranno naturalmente a scomparire e poi si decide che in Italia si sta bene in cinquanta milioni invece che in sessanta. Che male c’è? Qual è il problema?
Il 2/3 ottobre 2020 piogge e scirocco eccezionali hanno flagellato il nord-ovest italiano. Vari suoi contributi sono presenti sul web e sui quotidiani. Sul suo sito, il Nimbus, foto di cronaca mostrano le devastazioni occorse durante l’alluvione. Mancano le foto delle carcasse degli ovini recuperate sugli alberi, anche a cinque metri d’altezza nella piana del fiume Toce, in provincia di Verbania. Credo siano davvero emblematiche delle conseguenze del cambiamento climatico.
Torno a parlare all’uomo Luca Mercalli: come riesce a trovare la motivazione per continuare la sua opera di divulgazione, nonostante spesso rimanga inascoltata?
Questo fa parte di chiunque fa ricerca. La mia attività è fare prima di tutto il ricercatore nel campo dei cambiamenti climatici, quindi quasi sempre chi fa ricerca in qualche modo tende a utilizzare quello che capisce per cambiare le cose, la società. Non è detto che ci riesca ma la motivazione arriva ancora da questo. Arriva dalla grande curiosità di capire come funziona il nostro mondo. Purtroppo rimane la frustrazione perché quello che hai capito non è servito a cambiare le cose. Però, diciamo che lo faccio per i miei due nipoti.
Grazie dottor Mercalli per averci concesso il suo tempo per questa chiacchierata illuminante. Mi auguro ci voglia leggere sulle pagine di Solarpunk Italia.
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