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di Antonio Ippolito

Nelle cronache il cambiamento climatico viene normalmente associato (giustamente) a eventi estremi come le temperature africane dell’estate 2003 o di quest’ultima, oppure il ciclone Boris che sta flagellando l’Europa Orientale nello stesso momento in cui il Nord del Portogallo viene devastato da incendi dovuti anche a temperature eccezionali e prolungate. Si tratta di fenomeni che vanno spiegati al pubblico, per non lasciare spazio ai faciloni, più o meno interessati, che raccontano come due eventi opposti si annullano e non significherebbero nulla, oppure li sminuiscono citando singoli episodi altrettanto eccezionali di decenni fa.

Serve un minimo di competenza statistica per saper leggere l’andamento del clima nella quotidianità del meteo; ma per fortuna esistono anche indicatori molto meno fluttuanti, che esibiscono un effetto cumulato nella sostanza solida.

Il più noto è l’arretramento dei ghiacciai, evidente e progressivo in tutte le Alpi (l’unico ghiacciaio dell’Appennino, quello del Gran Sasso, si è ormai sciolto da anni; e nei monti Sibillini il lago di Pilato, con i suoi crostacei endemici, è all’asciutto da qualche mese).

Ma c’è un indicatore ancora più macroscopico: non di ghiaccio, ma di roccia; al tempo stesso conferma più evidente di altre e conseguenza temibile.

Innanzitutto chiariamo il concetto di “rebound isostatico o rimbalzo post-glaciale” in geologia: un territorio compresso da un grande peso, per esempio quello degli strati di ghiaccio spessi 3 chilometri dell’ultima glaciazione 19.000 anni fa, lentamente cede sotto il peso e si abbassa spostando il più fluido mantello sottostante. Se poi il peso viene rimosso, nell’esempio perché la glaciazione è terminata, lo stesso territorio lentamente si rialza, per effetto del mantello che torna a fluire sotto di essa. Sono tempi lunghi: sembra che nel Nord-Est degli USA, per esempio, il livello del terreno si stia ancora rialzando, mentre, viceversa, si abbassano gli orli rialzati quando l’area era stata compressa.

Fatta questa premessa, parliamo della Groenlandia: la seconda più grande massa di ghiaccio del pianeta è anche una delle aree dove l’aumento delle temperature globali è più visibile e generalizzato (a differenza dell’Antartide, dove sono presenti anche aree in raffreddamento): si calcola che si sciolgano 30 milioni di tonnellate di ghiaccio l’ora (tra l’altro, questo afflusso di acqua dolce, più leggera di quella salata, rischia di compromettere la circolazione delle correnti), e che da alcuni decenni questo deflusso non sia sufficientemente rimpiazzato da precipitazioni.

Il risultato è un alleggerimento complessivo dell’isola-continente, che l’ha portata a sollevarsi di 20 centimetri negli ultimi 10 anni, ed è facilmente misurabile dai satelliti.

Come se questo fenomeno non fosse abbastanza impressionante, altri ne sono generati a cascata: terremoti, causati direttamente dagli spostamenti del mantello sotterraneo, e tsunami, causati indirettamente: lo scioglimento dello strato superficiale di ghiaccio lascia libera la roccia di franare in acqua, causando un maremoto (in un caso recente un’onda, inizialmente alta 200m, ha continuato a oscillare per 9 giorni: per fortuna il tutto è avvenuto in un remoto fiordo).

Antonio Ippolito

Fonti

Megatsunami in Groenlandia, da Agi

Scioglimento dei ghiacci in Groenlandia, da The Guardian

La fusione dei ghiacciai può innescare terremoti, da Geopop


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