In India, l’agricoltura e l’allevamento insieme rappresentano il 18% delle emissioni di gas serra. dopo la Cina e gli Stati Uniti, il Paese è il terzo più grande emettitore di CO2 nel mondo. Normalmente gli agricoltori usano fertilizzanti azotati a base di urea, che rilascia in atmosfera protossido di azoto, una sostanza 300 volte più dannosa della CO2 per il riscaldamento globale.
Nello stato indiano del Madhya Pradesh, dove l’agricoltura contribuisce al 16-17% delle emissioni di gas serra, nel 2023 si è registrato il maggior numero di giorni con eventi meteorologici estremi (138); consapevole da anni dell’estrema vulnerabilità della regione, lo stato ha avviato Climate-Smart Villages, un progetto pilota che ha coinvolto 60 villaggi ed è durato cinque anni (2017-2022). I risultati del progetto hanno aperto uno spiraglio verso la mitigazione e un’agricoltura biologica più resiliente e sostenibile, meno costosa e molto meno inquinante.
Gli scopi del progetto erano molteplici:
- 1. insegnare ai contadini metodi innovativi di coltivazione naturale;
- 2. ridurre le emissioni di gas serra prodotte dall’agricoltura;
- 3. limitare l’impatto della crisi climatica con la conservazione del suolo e dell’acqua;
- 4. usare sementi resistenti alla siccità e alle inondazioni.
Per raggiungere tali obiettivi i contadini hanno imparato a scavare bacini per la raccolta d’acqua, a seminare direttamente in risaia, a coltivare legumi e soia in “letti” rialzati, a produrre compost e pesticidi naturali* a coprire con teli di polietilene le radici delle piante per evitare l’evaporazione dell’acqua. Inoltre, hanno usato come fertilizzanti letame e urina di mucca, un metodo tradizionale che ha permesso di arricchire i suoli esausti di azoto, zinco, fosforo, ferro e manganese, con un aumento dei nutrienti complessivo intorno al 15%.
Eliminando i fertilizzanti e i pesticidi chimici, il costo a carico dei contadini è sensibilmente diminuito e la resa è aumentata in media del 20%.
Migliorando il terreno, la sua capacità di assorbire CO2 accelera, l’importante è che essa rimanga per molto tempo nel suolo, che così funziona da pozzo di carbonio. Quindi è fondamentale che gli agricoltori non abbandonino i metodi di coltivazione naturale, altrimenti la CO2 verrà liberata e tornerà in atmosfera.
I contadini l’hanno capito, hanno apprezzato il progetto pilota e si augurano che continui: “avevamo appena cominciato a raccoglierne i frutti, doveva continuare ancora qualche anno” ha detto uno di loro. Sperano anche che la loro produzione biologica venga valorizzata: per ora il prezzo sul mercato è identico a quella coltivata con i fertilizzanti e i pesticidi chimici.
Un recente articolo dell’economista indiana Jayati Gosh** ci illumina sull’importanza di continuare e allargare ad altre regioni e Paesi, progetti come il Climate-Smart Villages. Gosh riesamina la rivoluzione verde iniziata negli anni Sessanta nei paesi in via di sviluppo, che ha consentito all’India e ad altri Paesi di raggiungere l’autosufficienza alimentare. L’uso di varietà ad alto rendimento, di fertilizzanti e pesticidi a base di azoto e, ultimamente, di colture geneticamente modificate per resistere ai parassiti, ha comportato una composizione nutrizionale deteriorata e una maggiore quantità di residui tossici.
Le monocolture non sono la soluzione. Potrebbero esserlo la coltivazione di varietà più adatte al clima locale e “l’adozione di pratiche agricole ecologiche basate sulla piccola proprietà terriera”.
Silvia Treves
Fonti
** L’eredità tossica della rivoluzione verde, in Internazionale 1553, 8 marzo 2024 p. 40, traduzione di Silvia Treves: https://www.project-syndicate.org/commentary/agribusiness-harms-nutrition-increases-disease-lessons-from-india-by-jayati-ghosh-2024-02
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