E se il solarpunk venisse sostituito dalla simulazione del solarpunk?
Matt Briar
Credo che oggi sia davvero facile auto-convincersi del proprio impegno verso la sostenibilità: svolgiamo la raccolta differenziata, ci facciamo consegnare i pacchi al locker invece che a casa, ci dichiariamo consapevoli del surriscaldamento climatico. Tutte azioni politically correct, anche lodevoli, ma che contengono un’idea di sostenibilità disincarnata che, sotto sotto, conduce in prima istanza al nostro proprio benessere. Infatti non è altrettanto facile accorgersi di cadere vittime di un’illusione tecnologica di benessere: cioè quella di poter vivere sostenuti dalla tecnologia, in un mondo che percepiamo come in profondo decadimento.
Quand’è che la tecnologia, sia essa “alta” – la scienza e la tecnica del progresso collettivo – o “bassa” – i dispositivi di consumo che ci danno il nostro infinite jest quotidiano – comincia a essere vista e utilizzata non per costruire un mondo nuovo e migliore, ma per consentirci una fuga emozionale dal nostro mondo al collasso? Contrastando così anche i pochi e cruciali tentativi concreti di resistenza ecologica, politica e sociale?
In un domani che sta appena dietro l’angolo – o magari è già qui – la visione tipicamente solarpunk di un futuro green, rigenerato, rinvigorito, potrebbe venire crudelmente deviata e mutata nella visione di un ecosistema simulato di piaceri dai confini molto stretti: domestici. Questo a fronte di un collasso ecologico reale che avrà luogo – o magari sta già avendo luogo – appena oltre l’uscio di casa.
Nel 1979 – altro che tempi non sospetti – lo scrittore britannico di speculative fiction James G. Ballard dichiarava: “La prossima epoca sarà quella in cui, anziché cercare delle avventure viaggiando, saremo noi a crearle, a casa nostra, in varie forme. L’uomo medio (…) non dovrà più accettare il relativamente piccolo numero di fantasie che offrono film e televisione, ma potrà creare qualsiasi cosa ritenga adatto a lui. (…) Potrà sfruttare al meglio il proprio futuro grazie a un panorama tutto nuovo di relazioni sociali, personali e sessuali. Esperienze in attesa di essere provate tramite sistemi elettronici, dal proprio salotto.” (da “Extreme Metaphors”, a cura di Simon Sellars e Dan O’Hara, Fourth Estate, 2012, traduzione mia)
In una simile prospettiva, l’ideologia solarpunk, che guarda all’umanità in senso planetario, di specie, verrebbe introiettata in una direzione del tutto individualista. Non so se l’avete notato, ma negli ultimi decenni siamo diventati molto bravi a essere individualisti, e non mi pare di vedere alcunché, qui fuori, che faccia pensare a un’inversione di rotta.
Il risultato pratico di una simile deriva, potrebbe essere una rivoluzione tecnologica che non mira più a rigenerare l’ambiente esterno e a consolidare una civiltà in simbiosi con esso – a che pro, se l’ambiente è considerato terminale? – bensì a rimodellare la realtà percepita dall’individuo/utente come singolo, affinché quella diventi la fonte della rigenerazione, della simbiosi e in definitiva del suo massimo benessere.
Se il mondo esterno è un abisso che ci sta inghiottendo, ciò che faremo sarà cercare porte su altri mondi che ci tengano ben lontani dal nostro. E sarà in quell’ecosistema idilliaco, tecnologicamente controllato, che ritroveremo la realtà per come la ricordiamo o la immaginiamo. Il mondo, lì, sarà anche meglio di come lo ricordiamo o lo immaginiamo. Lì ritroveremo libertà, felicità, armonia. Lì anche il solarpunk avrà il suo riscatto.
“Prendendo parte a simulazioni senza alcun limite e assolutamente convincenti, chiunque potrà esplorare i propri impulsi in modo benigno e inoffensivo,” continua J.G. Ballard. “(…) Non sarà più necessario nemmeno andare nello spazio: il proprio salotto sarà mille volte più eccitante e, soprattutto, più reale.”
Dovremmo quindi convincerci che la tecnologia sia la sola e giusta risposta? O, al contrario, dovremmo demonizzarla? Dato che nessun uomo può davvero vedere dietro l’angolo, quello che possiamo fare per cominciare è dotarci di un bagaglio di conoscenze grazie al quale soppesare le prospettive, distinguere il falso dal vero, scansare le posizioni estremiste, e costruirci un’idea personale, critica.
Ritengo che il pensiero critico sia l’unico punto di partenza possibile per agire in contrasto con la simulazione, per la sopravvivenza – ma sarebbe meglio dire la vita – della comunità di cui siamo parte. Perché il pensiero critico, che comporta un processo cognitivo e dunque uno sforzo, è esattamente ciò che contraddistingue l’intelligenza da una simulazione intelligente.
Credo che possa sorgere il ragionevole dubbio che alcune soluzioni su cui la scienza sta oggi lavorando – qualche spunto: agricoltura idroponica, aridocolture, desalinizzazione delle acque, energia geotermica, superfood – siano ancora embrionali e poco pratiche, tuttavia il cambiamento deve partire dalla volontà di non arrendersi alla staticità, al perpetrare l’uguale, come vorrebbe qualunque piacevole simulazione.
La seducente via dell’escapismo emotivo programmato che, inevitabilmente, la tecnologia sta offrendo e offrirà in misura sempre maggiore – dato che obbedisce ai soli dettami del mercato – porta con sé il terribile rischio di rigettare dopo il primo assaggio la difficile e sì frustrante opera di rinnovamento ecologico, sociale e – sperabilmente – politico di cui Italia, Europa e l’intero globo terracqueo hanno urgente bisogno.
Per dirla con Evgenij Morozov, sarei un folle se credessi davvero che un’app possa risolvere i problemi della mia vita o quelli della società. L’app può farmi avere bollette del gas meno salate, ma non risolve l’aumento del prezzo del gas, né mi dice perché il gas è aumentato. L’app non diffonde conoscenza e non sprona cambiamenti: l’app perpetua la staticità. E nel farlo, mi fa crogiolare nell’idea di avere una soluzione chiavi in mano per pagare di meno ed essere stato più furbo degli altri.
Ecco il primo passo nell’illusione del benessere tecnologico, il grado zero della simulazione.
D’altro canto, sarebbe ingenuo e anacronistico pensare di poterci affrancare dalla tecnologia, anche di quella più frivola, che ormai accompagna tutte le sfere della vita. Benissimo, allora conviene non dimenticare mai che la tecnologia è nata dalla mano dell’uomo: è stata l’ascia nelle mani del cacciatore del Paleolitico, il nostro strumento di caccia. Non è mai stata il nostro fine. Il fine è sempre stato quello di procurarci la prossima bistecca.


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