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“In difesa degli animali” e altri scritti

di Matteo Scarfò

Vorrei dire anche: basta basta basta con i problemi dell’uomo. L’uomo si alzi in piedi, veda quanto ha rubato, infierito sulla natura, depredato e straziato – e come questa vita di vandalo lo abbia stremato. Si alzi a ricostruire la terra che non era sua, era dono di tutti, e solo allora – se avrà fatto qualcosa di buono per questa terra e per i suoi abitanti tutti – osi parlare dei suoi strazi. Ma prima no. Tutta la terra è una ferita sola, tutto il popolo delle bibliche anime viventi geme sotto la mano malvagia di un solo animale. Che questo animale si redima, o se ne vada per sempre. Egli, finora, non è stato che maledizione e malattia della vita. Non è più – se non diviene umile – necessario.


Era quanto scriveva Anna Maria Ortese (Roma, 1914 – Rapallo, 1998) nel suo saggio “Le Piccole Persone: In difesa degli animali e altri scritti”. Specialmente nella seconda parte della sua lunga carriera letteraria, Ortese ha lanciato nel dibattito intellettuale un’implorazione inascoltata contro i crimini dell’essere umano verso «ogni anima della Vita».


La scrittrice ha rivelato attraverso un’intensa produzione artistica che conta non solo i romanzi e i racconti ma anche articoli di giornale, saggi, interviste e auto-interviste, un’insofferenza nei riguardi del progresso sfrenato che si era separato dalla sua stessa origine naturale, per diventare l’oppressore delle specie viventi. Ortese rivela come l’umanità abbia centralizzato la discussione: non si fa che parlare dei bisogni dell’uomo ma si è del tutto dimentichi dei doveri che l’uomo ha verso la natura, verso la sua Casa. Questo profondo senso di malessere contro la storia e il suo avanzamento le è valso l’accostamento a Giacomo Leopardi, ma mentre il poeta recanatese cambiò in parte il suo pessimismo, quello di Ortese anzi si intensificò fino alla fine.

Così scrive in “Corpo Celeste” (il suo testamento spirituale fatto di interviste e articoli realizzati tra il 1974 e il 1989 e infine pubblicato nel 1997, un anno prima della morte):

Oggi, se c’è qualcosa da fare per l’uomo, è combattere la sua inumanità, intervenire contro i suoi delitti, che prima ancora di essere delitti dell’uomo contro l’uomo, sono delitti dell’uomo contro la Terra! La Terra va adorata! Non uccisa e sfruttata! Non adoperata. È sovrumana, la Terra, e tutti i suoi verdi cuori lo sono. Onore alla Terra! Combattiamo per la libertà e la reintegrazione della Terra nel nostro sistema di valori! Tornino al primo posto! In primo luogo le foreste e la luce, le acque e i monti! Tutti gli esseri elastici e splendidi, spirituali e regali che la popolano. È l’uomo che va ridimensionato, non la Terra. E quando dico “uomo”, mi riferisco essenzialmente alla sua vecchia cultura, cultura d’arroganza, che lo ha posto al centro dei sistemi, padrone e torturatore, corruttore e venditore di ogni anima della Vita.


La lirica ispirata di Anna Maria Ortese negli scritti filosofici si basa sull’immaginazione di un passato in cui Umanità e Natura convivevano in un idillio, che in qualche modo il nostro tempo ha cancellato, e di cui solo gli animali, le piccole persone innocenti, recano un ricordo.

[Ci sono] momenti che un’umile bestia (o ciò che crediamo tale) ci guarda in modo tanto quieto, benevolo, profondo, tanto puro, consapevole, amoroso, «divino», da farci balenare l’idea di una comune Casa, di un comune Padre, un comune Paese, un Reale tanto felice e beato, dal quale partimmo insieme, per naufragare in questo. […] Nelle voci di molti uccelli, forse anche dei più lieti, risuona a volte questa nota accorata, quest’alta e trepida malinconia, a cui non sembra esservi spiegazione. […] questa Natura, con i suoi rituali eterni e la sua segreta tristezza, ci parla invariabilmente di un passato, di una partenza, di un Altrove raggiante, di pace, e del giorno in cui ne fummo allontanati.

L’autrice prova una forte nostalgia per questa sorta di eden che la civiltà del progresso senza freni ha straziato. La sua empatia verso le piccole persone la induce a riflettere sull’autoproclamata libertà che il progresso darebbe all’uomo. Quale libertà, chiede l’autrice, la libertà di uccidere e privare di una casa altre forme viventi, la libertà di non renderne conto a nessuno?

Queste anime viventi – tale è il loro nome nei testi sacri – occupano il grado più basso, ormai, di tutta la vita vivente, e dove in tempi precedenti la loro sfortuna, asservimento, dolore era cosa casuale ora è cosa altamente programmata, tramite l’industria, e li vediamo in ogni punto della loro muta vita soggetti alla infame programmazione del vivere – una minima parte – umano, alla programmazione del potente umano. Allevamenti, macelli, laboratori, giochi infami, sacrifici solo apparentemente religiosi – in realtà sadici -, maltrattamenti, divertimenti e alla fine ritiro totale, da essi, di ogni pur apparente protezione della legge: ridotti a cose, essi anime viventi, e il loro vivere pari in tutto all’inferno che l’uomo temeva e ora ha pienamente realizzato. Lo ha realizzato per i più deboli.


La vita e l’opera di Ortese sono un sogno mistico che non ha mai trovato casa. Pur trattandosi di una delle maggiori autrici italiane del Novecento, Ortese non gode della fama che meriterebbe. Solitaria e pensosa peregrina, trova il punto fisso solo nel silenzio, nella scrittura, nell’osservazione delle fragilità: tutto questo è rivelazione del bene ma anche accettazione del male. Per Ortese è possibile proteggere e promuovere il bene solo se si è capaci di riconoscere anche il dramma, ovvero il male: l’alienazione della società moderna, la logica del mero guadagno, la violenza contro la natura, la mancanza di delicatezza e tanto altro. Da tutto ciò deriva una vera e propria missione etica, un monito a non rimanere sordi alle continue richieste di aiuto che ogni creatura, anzi ogni cosa, fa emergere da sé.

Viene da chiedersi allora se, nel momento di pericolo che stiamo vivendo, la letteratura abbia uno scopo in questo e se possa essere portatrice anche oggi di una riflessione, di un contributo, verso un cambiamento di prospettiva.

Matteo Scarfò
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