Matteo Scarfò e Franco Ricciardiello
Prima o poi doveva arrivare il giorno in cui la fantascienza ha iniziato a somigliare alla nostalgia. (Andrew O’Hagan, Rivista Studio)
Lo svedese Simon Stålenhag, nato nel 1984, è oggi tra i più quotati artisti visuali della science fiction mondiale. Dopo un esordio con lavori disponibili online, su Wired e The Verge, ha raccolto nel 2014 una serie organica di immagini con testi di spiegazione nel volume Ur Varselklotet, pubblicato grazie al crowfunding e tradotto in italiano da Mondadori con il titolo Loop. Il grande successo della pubblicazione, e il senso del meraviglioso suscitato nei lettori hanno portato a una trasposizione del lavoro in una serie tv Amazon in otto episodi, Tales from the Loop; tra il libro e lo schermo, l’ambientazione si trasferisce dal paesaggio lacustre svedese, il fiordo Mälaren occidentale, all’Ohio rurale.
Loop è una suggestiva ucronia in cui l’autore, sollecitando la sospensione dell’incredulità del lettore, immagina che tra il 1954 e il ’69 la Svezia abbia costruito a ovest di Stoccolma, in una zona in cui il fiordo d’acqua dolce che bagna la capitale si frammenta in un’intersezione di terra e acqua, “il più grande acceleratore di particelle del mondo, un’enorme struttura circolare sotterranea, estesa per decine di chilometri”. In questo scenario, in equilibrio tra il tecnologico e l’agreste, Stålenhag inserisce momenti della propria infanzia, o meglio “memorie di un futuro passato” — situazioni tratte dal ricordo ma trasposte in una realtà parallela; come si legge sul sito degli Oscar Mondadori, “una Svezia tecnologica, decadente e misteriosa, costellata da costruzioni gargantuesche e abitata da robot, animali cibernetici e persino dinosauri.” Una sorta di retro-scrittura della memoria infantile, che inserisce il senso del meraviglioso in un paesaggio consueto.
In Loop, il nostro sguardo arriva in ritardo. La gloria dello sviluppo tecnologico – anzi, fantascientifico – si è esaurita in fretta, lasciando dietro di sé una scia di rottami e ruggine. Il libro trae forza dalla tensione dialettica tra creazione e abbandono, tra ordine antropico e entropia naturale. Gli anni ’80 sono per Stålenhag un deposito immaginifico da cui attingere e in cui proiettare ambizioni retrofuturiste che, nell’atto di venire alla luce, sono già esaurite. La sua è modernità solida, tanto effimera quanto incompleta.
I racconti e le illustrazioni di Stålenhag aprono squarci su un passato alieno e allo stesso tempo riconoscibile, che rimanda alla tradizione della sci-fi anni ‘70-80, al cyberpunk e al videogame. Ma di queste tradizioni molto spesso urbane.[1]
In Loop il punto-di-vista sono gli occhi dei bambini, che vedono un paesaggio umano trasformato dalla un sense of wonder che promana dai residui tecnologici anziché dal mistero di una natura incomprensibile — o, meglio, da un misto tra i due: automobili Volvo anni Settanta e campi coperti di neve, giganteschi monoliti di torri di raffreddamento e laghi circondati da sempreverdi, grandi automi bipedi dalle giunture cigolanti e foreste invernali, rottami tecnologici retro-futuristi sotto la lunga notte blu boreale. Nascosti in sfere arrugginite o in vecchie case tradizionali di legno ci sono portali spaziotemporali, tunnel in disuso che conducono alle gallerie dell’acceleratore, automi ossidati che conservano ancora una scintilla di energia residua.
Negli occhi del bambino cresciuto, i ricordi ucronici diventano una malinconica utopia, nostalgia di un’infanzia mai vissuta.
Di fatto, Loop sfrutta l’ucronia per oggettivare l’idea di un’infanzia irripetibile, destinata a sbiadirsi nella memoria dell’adulto – e soprattutto dell’autore adulto – per sublimarsi nel Mito, con tutta l’idealizzazione romantica che ne consegue. È quindi inevitabile che la narrazione abbia una qualità rarefatta e sospesa, poiché “simula” i meccanismi del ricordo e il potere della nostalgia. […]
L’acceleratore di particelle influenza progressi scientifici impensabili, che si radicano nella quotidianità dei cittadini e infine si riducono ad archeologia industriale, come presenze consuete su sfondi altrettanto familiari. E allora, ecco che la campagna svedese si popola di capsule d’acciaio abbandonate, torri di raffreddamento che si stagliano all’orizzonte, ragni meccanici, automi fuggitivi ed enormi dischi magnetrin, che consentono la levitazione sfruttando il campo magnetico terrestre. (Lorenzo Pedrazzi, Doppiozero)
Il libro è composto da grandi immagini iper-realistiche, alcune delle quali a doppia pagina, accompagnate da brevi testi descrittivi, quasi mai contestualizzati, poco più che schizzi di ricordi che raccontano personaggi e situazioni confusi nell’indeterminazione della memoria — come fantasmi sospesi tra il nostro mondo e l’altro.
“In Loop, lo straniamento cognitivo causato dal novum è solo negli occhi del lettore, mai delle figure che popolano le vicende” leggiamo nel sito Oscar Mondadori.
Lo straniamento del lettore è così forte che al termine del libro, si comincia davvero a sentire malinconia di questo nostalgico futuro dietro di noi.
Franco Ricciardiello
Tales from the Loop
Leggendo una recensione del critico britannico Joel Golby su The Guardian del 28 marzo 2020 scopro che uno dei motivi del rifiuto di una parte della critica di questa serie è la presunta lentezza e il fatto che non succeda mai nulla.
That is the exact sort of TV show I want to watch, like it was made in a lab, especially for me. But nothing happens. Nothing happens!
Loop is very beautiful, but that’s where the praise ends. Fundamentally, I consider it rude to take an hour of someone’s life and only tell seven to nine minutes of story across it.
Premesso che ognuno si sceglie il ritmo che vuole, penso sia successo qualcosa nel momento in cui è passato il concetto che fantascienza equivalga ad azione. Forse troppi film negli ultimi decenni hanno scelto le pistole e gli inseguimenti come riempitivo di storie ambientate nel futuro? Non so dirlo con certezza, ma il centro della fantascienza di Tales From the Loop, tratto dalle storie pubblicate dall’illustratore svedese Simon Stålenhag, risiede in qualcos’altro: cosa succederebbe se la tecnologia si applicasse agli interrogativi più grandi che l’umanità si sia mai posta su se stessa? Esistono piani paralleli di esistenza? Cosa faresti se incontrassi te stesso? Se avessi la possibilità di scoprire quanto durerà la tua vita, vorresti scoprirlo?
Queste sono alcune delle domande che la serie pone negli 8 episodi dell’antologia, non per cercare risposte naturalmente bensì per indagare le emozioni umani, i pensieri, le reazioni alla nostra scoperta di ciò che risiede nell’ignoto.
Si può fare qualcosa per scoprire cosa c’è oltre il velo che ci separa dal grande mistero? Il grande centro tecnologico chiamato The Loop, situato in un Ohio silenzioso, quasi disabitato e retrofuturistico, dispone della tecnologia per scoprirlo; il problema è che non ci sono le istruzioni per questo gioco. Ogni essere umano, essendo un singolo individuo unico e irripetibile, lo affronta a modo suo.
Tales From the Loop è un’ucronia, immagina cosa sarebbe successo se il progresso tecnologico fosse andato in un’altra direzione e se gli Stati Uniti (nelle illustrazioni originali era la Svezia) non fossero diventati un’ultrapotenza mondiale, ma è anche fantascienza antropologica, umana, filosofica. Siamo nel pieno di quell’attenzione verso il nostro rapporto con l’esistenza e la tecnologia (reale o distopica) che pare a volte persa dalla science-fiction cinematografica moderna (in quella televisiva invece le cose sono andate in un’altra direzione, basti vedere le recenti The Peripheral, The Expanse, Far All Mankind, Severance). Certo, c’è della nostalgia in Tales From the Loop, ce n’è tantissima, e c’è tantissimo romanticismo. Questo non è un racconto alla Dark o alla Stranger Things dove bisogna arrivare a sciogliere il nodo di intriganti rompicapo; è vero che il Loop influenza i vari racconti, ma non ne è il fulcro.
Ogni episodio inizia con un elemento collegato al Loop che cambia la vita di un personaggio. Da quell’esperienza il personaggio ha allargato la sua visione sull’inconoscibile o ha scoperto qualcosa sulla realtà in cui è vissuto e sui propri affetti. Un ragazzino scopre che nella vita non si può fare nulla contro la morte, e si confronta con quanto straziante possa essere quel processo. Una ragazzina scopre che sua madre non era la donna che pensava di essere, e deve accettare che, sebbene la sua vita possa andare bene, sarà una strada difficile per arrivarci. Un uomo cerca di difendere la famiglia da una propria paranoia finendo per metterla in pericolo. Due amici si scambiano i corpi e le esistenze. Sono storie semplici, quasi il mondo di Raymond Carver riletto in maniera fantascientifica, e credo che questo abbia distratto molti dal coglierne la bellezza.
Forse c’è che oltre all’azione si è troppo desiderosi di arzigogolati plot twists? Beh, qui non ce ne sono. Ma è nel trattamento di ogni storia, dalla scrittura alla regia (Andrew Stanton, Mark Romanek, Ti West, Jodie Foster e altri) alla recitazione (Jonathan Pryce, Rebecca Hall, Ato Essandoh) agli effetti speciali integrati, che Tales From the Loop è appassionante. Sì, sono prototipi di narrativa che abbiamo già visto o letto prima, ma li stiamo vedendo sviluppati in modo ricco e profondo, e per farlo si usa la fantascienza presa con serietà.
Lo showrunner Nathaniel Halpern ha tratto ispirazione dal ciclo di racconti Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson e dai suoi temi di solitudine e isolamento e la sua attenzione ai personaggi delle piccole città. Il regista Mark Romanek ha tratto ispirazione dal Decalogo, la serie di film per la televisione in 10 puntate di Krzysztof Kieślowski. Altri registi citati per aver influenzato la produzione includono Ingmar Bergman, Yasujirō Ozu e Andrej Tarkovskij.
A questo punto avete capito a cosa mirava questa bizzarra e unica antologia. Ci sono infiniti esempi di serie o film che ci raccontano gli orrori che la tecnologia può portare, Tales From the Loop non è interessato a battere quel tasto (possiamo dire che a volte chi batte quel tasto lo fa in modo stanco?). La tecnologia è parte del nostro processo evolutivo più di quanto immaginiamo, anche se talvolta fa paura. L’umanità presente nel processo di cambiamento però esiste e non va banalizzata. In questi piccoli momenti di tristezza, felicità, scoperta e delusione, ma anche nel suo approccio speranzoso verso la capacità umana di usare le emozioni per continuare il nostro cammino verso l’impossibile e l’incredibile sta l’incanto di Tales From the Loop.
Matteo Scarfò
Tutte le immagini sono tratte da Ur Varselklotet © 2014 Simon Stålenhag
[1] https://www.oscarmondadori.it/approfondimenti/loop-memorie-di-un-futuro-passato/
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