Silvia Treves
Il caffè è la seconda merce scambiata al mondo, dopo i prodotti petroliferi. Le tre specie coltivate più note sono Coffea arabica, originaria dell’Etiopia, Coffea robusta (scientificamente denominata canephora), originaria dell’Africa occidentale, e Coffea liberica originaria dell’Africa occidentale e centrale. Arabica è un caffè di grande pregio, Robusta contiene più caffeina ma ha un sapore più piatto, ed è usato soprattutto per caffè istantanei e miscele. Liberica è la più resistente e la meno pregiata.
Purtroppo, l’aumento delle temperature dovuto alla crisi climatica, le malattie e i parassiti che divengono sempre più comuni e l’infezione fungina nota come “ruggine della foglia di caffè” hanno devastato le piantagioni in America centrale e meridionale.
Le piantagioni di Robusta sono più resistenti, ma quelle di Arabica, che hanno bisogno di molta pioggia, sono vittime della siccità.
Eppure, c’è speranza di sviluppare colture di caffè più resistenti, che riescano ad affrontare temperature più elevate e precipitazioni meno prevedibili, pur rimanendo all’altezza del gusto e del profumo di Arabica.
. Fu coltivata nelle zone più umide dell’Africa occidentale fino all’inizio del xx secolo, poi venne sostituita da Robusta, più produttiva. Stenophylla, però, ha continuato a crescere selvatica nelle foreste umide di Guinea, Sierra Leone e Costa d’Avorio, benché minacciata dalla deforestazione.
Un gruppo di ricercatori la rintracciò a fine 2018, in Sierra Leone, e ne ritrovò gli alberi da frutto nel 2020. Fu così possibile mettere insieme un piccolo campione di 10 g che venne presentato ad assaggiatori esperti. Gli autori dello studio, che incrociavano le dita, raccontano che fu come aspettarsi aceto e trovare champagne.
In effetti, Stenophylla sembrava molto simile ad Arabica e i degustatori vi trovarono note di pesca, ribes nero, mandarino, miele, tè nero chiaro, gelsomino, cioccolato, caramello e sciroppo di fiori di sambuco. Assaggiarlo dev’essere fantastico, ma ancora più fantastico è stato ritrovare questo miracolo della biodiversità che somiglia all’Arabica pur non avendo nulla in comune con essa. Le due specie, infatti, non sono strettamente imparentate, sono originarie dei lati opposti del continente africano e vivono in climi molto diversi; manco si assomigliano, perché i frutti di Stenophylla sono neri mentre le bacche arabiche sono rosse.
La cosa più interessante, però, è che Arabica viene coltivata ad altitudini superiori a 1500 m, dove il clima è fresco e la luce migliore; Stenophylla, invece, cresce al caldo e a bassa quota, a una T° media annua di circa 25°C, quasi 2°C più alta di Robusta e quasi 7°C più alta di Arabica. Inoltre, pare avere meno bisogno di pioggia e resiste meglio alla siccità.
Si stanno valutando le possibilità di incroci fra le tre specie.
Tuttavia, anche Arabica, da sola, ci riserva belle sorprese, soprattutto a livello di comunità.
Nella sua forma originaria e selvaggia, Arabica nasce fra gli altipiani e le foreste dell’Etiopia sud-occidentale, ed è qui che mantiene la sua diversità genetica.
Purtroppo, queste aree sono vittime della deforestazione e negli ultimi quarant’anni hanno perso circa un terzo delle foreste che, nei prossimi decenni, potrebbero andare perdute. Vanno protette, invece, per garantire la biodiversità e per la gioia di noi umani. Arabica, infatti, nella sua forma da piantagione, si basa su una diversità genetica che vale solo il 10% di quella garantita dalla natura. Occorre intervenire per evitarne l’estinzione.
Inoltre, queste foreste – che immagazzinano carbonio e umidità, garantendo precipitazioni negli altopiani settentrionali dell’Etiopia – vengono invase da agricoltori provenienti dalle aree più secche e più popolate, nonché da proprietari di piantagioni di caffè e tè. I terreni agricoli ormai prevalgono sulla foresta. Mancando le risorse per la sorveglianza chiunque ha potuto entrare nella foresta prelevando senza rischi ciò che voleva.
Il governo etiope ha cercato di proteggere le foreste con una gestione partecipativa, ovvero conferendo responsabilità di gestitone alle comunità che vivono nella zona, e premiandole con diritti tradizionali. Le comunità, che praticano una agricoltura di sussistenza, possono utilizzare il loro settore di foresta, prelevandone caffè, miele, spezie e altri prodotti forestali; in cambio devono sorvegliarla garantendone la sicurezza con un monitoraggio regolare. A occuparsi di questo aspetto provvedono dei gruppi di gestione forestale di cui anche le donne fanno parte.
Negli ultimi sei anni, il Wild Coffee Conservation Project ha lavorato con 55 gruppi di gestione forestale per garantire oltre 60.000 ettari di foresta: i risultati sono buoni: la deforestazione nelle aree protette è un dodicesimo rispetto a quanto avviene nelle aree dove il progetto non è attuato.
Le cooperative istituite per commercializzare i prodotti forestali gestite dalle comunità sono riuscite a produrre Arabica di grande qualità dai germogli selvatici, spuntando un prezzo tre volte più alto di quello di piantagione.
Questo sistema è sostenibile, e il coinvolgimento delle comunità in prima persona è molto più efficace dei tanti approcci protezionistici basati su fondi governativi fluttuanti che non prevedono il coinvolgimento consapevole delle persone.
Fonti
The Conversation – Climate change threatens coffeee
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